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Storia della letteratura

"Quadri friulani" di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto

In questo poemetto fra amorosa nostalgia e consapevolezza del non ritorno si snoda l'andamento poetico di Pasolini che angosciato vive la rottura col passato.

Federico Guastella
Federico Guastella Pubblicato il 15-02-2023
"Quadri friulani" di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto

Quadri friulani, che nel luglio 1955 fu pubblicato nel secondo numero della rivista bimestrale Officina con il titolo I campi del Friuli, è il poemetto che si trova nella raccolta Le ceneri di Gramsci.

Questi versi originariamente era stati scritti da Pasolini per una mostra del pittore Giuseppe Zigaina a Roma. Difatti, altro titolo era già stato Lettera a Zigaina, in omaggio all’amico-pittore friulano e compagno di partito.

L’incipit introduce a una sera in cui il poeta si vede senza cappotto nella passeggiata serale. L’aria profuma di gelsomino ed egli, “avido e prostrato”, sente di dissolversi fino a essere “febbre nell’aria”.
Respira l’odore di un’imminente pioggia mentre il “sereno” incombe “arido” sull’asfalto e su “mandrie di grattacieli” che fanno avvertire un senso di malumore causato dall’avvento della cementificazione.

Il cammino lo conduce verso la periferia industriale romana:

Sordido fango indurito, pesto, e rasento / tuguri recenti e decrepiti, ai limiti / di calde aree erbose.

Quadri friulani: analisi del poemetto di Pasolini

Con grande abilità Pasolini mescola nelle descrizioni stati d’animo come se sentisse una distensione dell’animo, resa così esplicita: un “muto vento / risale dalla regione aprica / dell’innocenza”. Incontra l’odore di primavera che nel cuore scioglie ogni difesa e fa sentire “antiche voglie”, “smanie”, “sperdute tenerezze”.

Con in mente i dipinti di Zigania, il lasciarsi andare alla contemplazione si fa evocazione del paesaggio vissuto.

Ecco muoversi lo sguardo su un ampio spazio, scenograficamente rappresentato da confidenziali e musicali sequenze lirico-descrittive:

Le foglie dei sambuchi, che sulle rogge
sbucano dai caldi e tondi rami,
tra le reti sanguigne, tra le logge

giallognole e ranciate dei friulani
venchi, allineati in spoglie prospettive
contro gli spogli crinali montani,

o in dolci curve lungo le festive
chine delle prodaie… Le foglie
dei ragnati pioppi senza un brivido

ammassati in silenziose folle
in fondo ai deserti campi di medica;
le foglie degli umili alni, lungo le zolle

spente dove le ardenti pianticine lievita
il frumento con tremolii già lieti;
le foglie della dolcetta che copre tiepida

l’argine sugli arazzi d’oro dei vigneti.

A Zigaina (esplicitamente non nominato) o a sé stesso chiede se ricorda la sera in cui avevano tenuto un comizio sulla pace a Ruda:

Era una lotta / bruciante di se stessa, ma il suo fuoco / si spandeva oltre noi. Braccianti vestiti a festa unitamente a ragazzi in bicicletta giungevano dai borghi vicini: e la mesta, / quotidiana, cristiana, piazzetta / ne fiottava come in una sagra.

Ricordi festosi affiorano dunque nell’ardore dell’amore; loro due, ancorché non popolani, gridavano parole quasi incomprese, ma che “erano promessa sicura”. Si cantava nella “buia osteria”.
E c’erano “le chiare facce dei festeggiati”, intorno “le scorate armoniche / e la bella bandiera nell’angolo più / in luce dell’umido stanzone”. Vivace la poetica contrasta con “una stasi / mortale delle cose”; frattanto il poeta, ripensando alle opere pittoriche dell’amico, riconosce i colori dei luoghi amati e sente gli odori acri del luogo del Friuli, toccati dal vento:

Un glauco / afrore d’erbe, di sterco, che il vento rimescola…

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Fra le raffigurazioni umane dell’amico-pittore, Pasolini scorge “oscuri suonatori di flauto”, “Cristi inchiodati tra falde / di luce franata dai transetti d’Aquilea”, “pescatori verdi di veglie” e “braccianti / sulle scarpate del traghetto serale, / appoggiati ai manubri, stanchi, / bruciati, mentre la notte già s’annuncia / nel triste borgo con le luci e i canti”.

È l’immersione nell’amore nostalgico uno dei momenti felici evidenziato con una raffinata maestria. “Sperdute tenerezze” chiama il poeta i suoi ricordi che lo coinvolgono in un modo totale il sistema sensoriale (dall’olfatto, al gusto, all’udito, al tatto).

Sono sapori di quel mondo quieto
e sgomento, ingenuamente perso
in una sola estate, in un solo vecchio

inverno – che in questo mondo diverso
spande infido il vento. Ah quando
un tempo confuso si rifà terso

nella memoria, nel vero tempo che sbanda
per qualche istante, che sapore di morte…

La memoria, che reca con sé “istanti di disfatta e di veggenza”, gli fa dire che la sua chiarezza “non muta il mondo, ma lo ascolta / nella sua vita, con inattiva ebbrezza”. Ciò che gli riappare è però tramontato; il poeta è consapevole che non può più esserci il tempo dell’idillio a meno che non ci si voglia estraniare dal presente.

Sono gli ultimi otto versi in cui Pasolini, dandosi dell’invidioso, si congeda dall’amico con struggente malinconia.
L’aveva chiamato felice giacché, rispetto alla sua disillusione, poteva sentire la vita nel vento primaverile. La rottura col passato l’angoscia, riapre le ferite della sua coscienza e avverte che la mitica vita friulana è ormai travolta dall’incalzare della modernizzazione:

L’amore di Ruda, gridato dal rosso
palco di povere case, rimane

puro nella tua vita. E chi, scosso
dalla paura di non essere abbastanza puro,
aspira nel vento di primavera lo smosso

sapore della morte, invidia il tuo sicuro
espanderti nei solenni, festanti colori
dell’allegria presente, del sereno futuro.

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