Una celebre canzone italiana ci racconta di un “Cesare perduto nella pioggia” che attende dai sei ore il suo “amore ballerina”. Non è un mistero che quel Cesare sia Cesare Pavese, lo scrittore delle Langhe che sarebbe morto suicida a soli quarantadue anni in un albergo di Torino, lasciando un biglietto che esplicitava chiaramente i suoi intenti, senza lasciare adito a dubbi.
Il malinconico Pavese perduto nella pioggia rivive tra le righe di una sua poesia: O ballerina, ballerina bruna, scritta nel 1925 in ricordo del suo primo amore. Ma chi era quell’amore? E che ne è stato della “ballerina bruna”?
O ballerina, ballerina bruna è un breve componimento di dodici versi in cui ritroviamo la stessa ballerina ardentemente cantata da Pavese in Tutta la perfezione, dove alludeva a lei nei primi folgoranti versi: “Tutta la perfezione è nel segno della tua danza ballerina bruna”.
Era un altro degli amori infelici di Cesare Pavese; forse il primo e radicale di tutti gli amori infelici che sarebbero poi culminati nella passione dolente per la bionda attrice Constance Dowling, destinataria degli ultimi struggenti versi pavesiani, già prefigurazione di un destino annunciato: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (1950).
Chi era la ballerina di Pavese? Con ogni probabilità si trattava di Pucci, una ballerina che lavorava al caffè concerto “La Meridiana” frequentato dal giovane poeta quando ancora era studente al liceo classico. La poesia fu scritta, nel 1925, all’insegna del trauma: davvero Pavese aspettò la sua ballerina per ore sotto la pioggia, come canta Francesco De Gregori nella celebre canzone Alice; ma la sua attesa infine - questo la canzone non lo dice, ma lo lascia presentire - fu vana, poiché la “ballerina bruna” uscì dal retro del locale assieme a un altro. La delusione ispirò a Pavese una delle sue più belle poesie giovanili; ma ebbe anche conseguenze certo meno romantiche, come una grave forma di pleurite che lo costrinse a letto per giorni e a una lunga convalescenza di cui questi versi conservano una traccia ineludibile “mi divoro e mi contorco febbrile” che può decisamente essere letta anche fuor di metafora.
Nell’anniversario della nascita di Cesare Pavese, che oggi 9 settembre avrebbe compiuto 116 anni, lo ricordiamo eternamente giovane e “perduto nella pioggia”, in balia delle tenerezze e delle angosce del suo primo amore.
“O ballerina, ballerina bruna” di Cesare Pavese: testo
O ballerina ballerina bruna,
o anima di carne appassionata,
mentre sotto le musiche e le luci
che paion fatte, colla loro gloria
e i loro brividi intensi, sol per te,
tu muovi sempre uguale e sempre splendida
e io nel buio lontano mi divoro
e contorco febbrile, da distruggermi
nel rombo delle luci, con nell’anima
tutti gli strazi tesi d’azzurro,
gli schianti e i grandi sogni lancinanti
levati in alto in alto addosso a te.
“O ballerina, ballerina bruna” di Cesare Pavese: analisi e commento
In questi versi, che risentono fortemente dell’influenza di Petrarca, Pavese tende a elevare la donna amata a un’anima - sottolineando il carattere spirituale e platonico del suo amore non ricambiato - ma al contempo non rinuncia ad alludere all’impeto del desiderio formulando l’antitesi quasi ossimorica: “anima di carne”.
La ballerina di Pavese è un essere disincarnato, nutrito di sogno e d’attese, e anche tremendamente reale: donna angelo e donna viva che diventa rappresentazione tangibile del tormento interiore che opprime l’io lirico.
Come Petrarca, che con la figura di Laura compie il delicato passaggio da creatura angelica a donna di carne e sangue oggetto di desiderio concreto, anche Pavese non manca di ribadire che il suo è un “amore terreno” come dimostrano i brividi che i movimenti della ballerina suscitano nel non indifferente spettatore.
La poesia può essere letta come una partitura bipartitica in cui il verso centrale segna l’inevitabile cesura tra un prima e un dopo:
tu muovi sempre uguale e sempre splendida
La ballerina bruna sembra muoversi eternamente, “uguale e splendida”, come una statuetta da carillon che danza senza fine al ritmo di una musica che lei sola può udire. Il cambiamento è determinato da chi la guarda: in questo caso Pavese.
La seconda strofa infatti muta l’atmosfera dell’intero componimento: il focus non è più sulla descrizione della ballerina, ma sulle sensazioni dell’io lirico, in uno sdoppiamento molto petrarchesco che ricorda Chiare fresche et dolci acque del Canzoniere - del resto, il libro per eccellenza della sofferenza amorosa.
Anche in questo caso c’è un parallelismo netto tra un “Tu” e un “Io” che vengono ad assumere due posizioni opposte e in alcun modo complementari:
e io nel buio lontano mi divoro
La ballerina si muove nella luce; mentre l’io lirico si ritrae nel buio, in una antitesi speculare. La poesia si regge su un peculiare equilibrio strutturale che enfatizza il contrasto interiore vissuto dal poeta: luce/buio, movimento/stasi, infine schianti e sogni. L’attesa nella pioggia di Pavese, oggetto di diversi miti e riscritture, prende corpo in questi versi divenendo un fatto, una postura, una sorta di punizione corporale che traduce - fuor di metafora - un tormento tutto interiore:
e io nel buio lontano mi divoro
e contorco febbrile, da distruggermi
nel rombo delle luci, con nell’anima
tutti gli strazi tesi d’azzurro
Nel finale, non detto ma ugualmente esplicito, trapela il rifiuto che causò il trauma in Pavese e l’origine stessa del componimento. Tutti i parallelismi, le antitesi, i nodi retorici si sciolgono in un grido dell’anima che, noi che leggiamo, avvertiamo ancora acuto. Forse Cesare non ha mai dimenticato “il suo amore ballerina” e ancora la attende da qualche parte, perduto nella pioggia, mentre il tram di mezzanotte se ne va (ma tutto questo Alice non lo sa) e lui continua bagnarsi, le gocce di pioggia gli cadono sulla giacca e lui, ovunque, in ogni goccia, non vede che lei che danza sempre “uguale e splendida”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “O ballerina, ballerina bruna”: la poesia di Pavese dedicata al suo primo amore
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