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Recensioni di libri

1915: l’Italia va in trincea di Gastone Breccia

il Mulino, 2015 - Nei primi sei mesi della Grande guerra, fino a tutto il 1915, il nostro Paese impreparato arrivò ad un passo dal collasso, poi l’Italietta scoprì di avere risorse insperate

Felice Laudadio
Felice Laudadio Pubblicato il 07-10-2015

8

1915: l'Italia va in trincea

1915: l’Italia va in trincea

  • Autore: Gastone Breccia
  • Genere: Romanzi e saggi storici
  • Categoria: Saggistica
  • Casa editrice: il Mulino
  • Anno di pubblicazione: 2015

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Dall’italico “maggio radioso” sei mesi di pallottole, pietre, spine e sangue.

La prima parte della Grande Guerra italiana: sei mesi di sanguinosi fallimenti. 24 maggio – 31 dicembre 1915, il primo periodo è senz’altro il meno conosciuto e approfondito. Gli storici gli riservano un’attenzione sommaria, limitandosi a qualche pagina sui primi assalti sterili, i massacri sui monti Mrzli e Sei Busi. Ora, a colmare la lacuna provvede la ricerca del prof. Gastone Breccia, docente di storia dell’ateneo di Pavia, pubblicata da il Mulino col titolo “1915: l’Italia va in trincea” (310 pagine, 24 euro).
Lo studio ha una premessa insolita e decisamente interessante: in quell’avvio, il nostro Paese arrivò a un passo dal tracollo, essendo entrato del tutto impreparato nel conflitto, nonostante l’ingresso ritardato avesse mostrato a cosa si andasse incontro. Dopo il fallimento delle prime spallate, la prova durissima venne superata e l’Italietta scoprì di avere risorse insperate per continuare a combattere, ma la Nazione e l’Esercito vennero scossi profondamente dall’orrore inaudito di una guerra di logoramento, che chiedeva sangue e sacrifici come mai, oltre a uno sforzo produttivo ed organizzativo senza precedenti.
Il momento chiave fu il dicembre 1915: la fase più delicata, dove si sfiorò il collasso, si tenne e si raccolsero le forze necessarie ad affrontare l’immane tempesta d’acciaio.
Intanto, tutti gli eserciti avevano sperimentato il progresso tecnologico che metteva in netto vantaggio i difensori sugli attaccanti. Si pensi al volume di fuoco che un reparto di fucilieri, ben protetto, poteva scatenare sul nemico all’assalto: venti colpi al minuto per ogni fucile, gittata utile fino al chilometro, lasciando da parte le micidiali mitragliatrici, i cannoni, le bombe a mano, gli ostacoli, il filo spinato.
I nostri non fecero altro che attaccare e gli austroungarici altro che difendersi attivamente. Ci si rende conto del macello dei fanti in grigioverde, costretti all’iniziativa per quasi tutta la durata della guerra. In più il nemico badava a occupare punti di osservazione elevati, dai quali dirigere efficacemente il fuoco delle artiglierie, contro avversari costantemente in basso, su pendii scoscesi da superare sotto il fuoco.
La cautela dei Comandi italiani nella prima avanzata era stata letale. Il generale Krafft assicurò nel dopoguerra allo storico Pieri che nelle due settimane in cui restarono inattivi, dopo il 24 maggio, gli italiani avrebbero potuto dilagare nel Tirolo fino al Brennero. Era quello che Vienna si attendeva: davanti alla lenta penetrazione, fece affluire rinforzi – nemmeno tanto numerosi – e chiuse la porta.
Pallottole e proiettili, pietrame e schegge, sbarramenti e reticolati, fuoco, pietre, spine: ecco gli elementi primordiali contro i quali i nostri si trovarono a combattere. Cadorna, il capo supremo del regio Esercito, non vedeva alternative al cocciuto attacco frontale contro posizioni ben presidiate e ammoniva addirittura di tralasciare ogni velleità di aggiramento, perché in una serie di linee fortificate anche le diversioni si sarebbero risolte in attacchi frontali. Ci costò decine di migliaia di morti, in assalti reiterati anche quando era evidente che non avrebbero avuto successo, campi interi di caduti e feriti, migliaia di prigionieri, senza una conquista che li giustificasse o un passo avanti di qualche significato.
Se le reiterate offensive rischiarono di distruggere un esercito, fu quello italiano, entrato in guerra con qualche baldanza.
La prima vittima della tragedia collettiva era la fanteria. Soffriva, vacillava e sopportava. Il poeta Clemente Rebora, dal Podgora, descrive alla mamma l’orrore di ciò che lo circonda, il tanfo dei morti insepolti, mentre l’artiglieria nostra ci accoppa in sbaglio. E scriverà versi famosi:

fanteria smarrita, smarrita, ricopri la strada. Ancor si ragiona nel mondo che vive? Noialtri si va.

Intanto, Cadorna si era convinto che non sarebbe stato un colpo poderoso ad atterrare il nemico, ma un lenta, metodica usura. Solo che c’era qualcosa che non andava anche in questa tattica. Intorno ad Oslavia, verso dicembre del ’15, aveva pianificato una battaglia di materiali per dissanguare gli austriaci. Fatta la conta finale, le nostre perdite assommavano a 10.500 uomini, quelle dell’imperial regio esercito erano ferme a 3600. Nella strategia della frizione, qualcosa andava per il verso sbagliato, ma sempre a danno dei nostri.

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: 1915: l’Italia va in trincea

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