1300 bare d’acciaio
- Autore: Carlo De Risio
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2018
I sommergibili, insidie nascoste per il nemico, ma battelli molto fragili, pericolosi per gli stessi equipaggi, ai quali offrivano poche possibilità di salvezza in caso di affondamento. Il giornalista esperto in materia navale Carlo De Risio titola non a caso “1300 bare d’acciaio. La guerra sotto i mari 1939-1945”, il libro che a dicembre 2018 ha pubblicato per le edizioni IBN di Roma (Istituto Bibliografico Napoleone, 146 pagine, 15 euro), con la consueta collaborazione di Alessandro Santoni per l’ingente corredo fotografico.
Nella Seconda guerra mondiale, quando le unità subacquee operavano nelle Marine da nemmeno un quarantennio, furono più di 1300 quelle perdute complessivamente. In testa alla dolorosa classifica la Germania, con 784 U-Boote affondati, due ogni tre dei 1162 entrati in servizio. All’offesa sottomarina aveva risposto una difesa sempre più sofisticata: per difendere i loro essenziali convogli verso l’Europa, gli Alleati si impegnarono ad attivare armi antisom letali e avanzati apparati di ricerca a distanza e in profondità. Il Giappone perse 129 sommergibili, l’Urss 108, l’Italia 98, la Gran Bretagna 74, la Francia 62, gli USA 50. Vanno aggiunte le unità delle flotte minori e i 221 autoaffondati alla resa germanica, l’8 maggio 1945.
I lettori più esperti sanno bene quello che allievi e marinai apprendono nelle prime lezioni di armi navali: sommergibile e sottomarino non sono affatto un sinonimo. Si tratta di termini tecnici che inquadrano le caratteristiche operative di mezzi insidiosi diversi, il primo solo apparentemente gemello dell’altro, in realtà antenato. Infatti, gli inglesi li distinguono in Submarine e Submersible e i tedeschi li riconoscevano rispettivamente come U-Boot e Tauchboot. Fino a qualche unità tedesca degli ultimi anni del secondo conflitto, avevano operato solo sommergibili, imbarcazioni che non disponevano affatto di armi in grado di offendere navigando sotto la superficie dell’acqua. Colpivano (col siluro o col cannone) restando parzialmente in emersione, offrendo alla vista nemica solo una sagoma seminascosta tra le onde (fino all’avvento dei radar). Poi riparavano sott’acqua, magari sul fondo, perdendo in velocità e manovrabilità ma riuscendo ad assumere un assetto immobile e silenzioso, per difendersi dagli strumenti nemici di rilevazione di oggetti immersi (sonar).
Tuttavia, potevano restare sotto la superficie solo poche ore, dovendo risalire per ricaricare le batterie usando i motori diesel (apparati a combustione che non potevano agire ovviamente in immersione) e assicurare il necessario ricambio dell’aria all’interno del battello.
Con l’uso del tedesco Schnorkel, dispositivo che consentiva di eseguire queste funzioni anche a quota periscopica ma sempre sotto la superficie, si entrò nell’era dei sottomarini, che ora navigano a propulsione elettrica o nucleare e portano le loro insidie da quote notevolmente profonde, dove possono restare invisibili e introvabili per mesi.
Se la mattanza dei 1300 battelli è impressionante, va detto che a loro volta provocarono vuoti disastrosi nel naviglio nemico. I soli U-Boote costarono agli Alleati 2.828 navi centrate da siluri e proiettili, oltre la metà delle perdite causate da altri mezzi di offesa (aerei, navi, mine) e dagli incidenti. Sommergibili della Kriegsmarine e scorte navali alleate si sfidarono nella lunga battaglia dell’Atlantico. I tedeschi condussero una guerra serrata al traffico commerciale, ereditando un concetto adottato già nel 1914-18. Era strategico “affamare” l’Inghilterra, una grande isola che dipendeva evidentemente dai rifornimenti dall’esterno.
L’US Navy seguì lo stesso criterio esiziale a danno del Giappone, aggredendo le rotte nipponiche nel Pacifico tra la madrepatria e i territori e isole occupati, ricchi di materie prime, sottraendo così all’industria bellica nemica risorse vitali (ben 1.042 mercantili giapponesi vennero affondati da sommergibili Usa, oltre a 214 navi da guerra). La Marina imperiale non replicò analogamente, ostinandosi ad attaccare senza risultati risolutivi le unità da guerra, invece di insidiare le estese linee di alimentazione della macchina bellica americana, dalla costa occidentale degli Stati Uniti al Pacifico centro occidentale.
Nel volume, uno dei 12 capitoli più 2 appendici (riservate ai sommergibili italiani affondati e al destino del Regent, con a bordo l’oro di Belgrado) ricorda “l’esibizione” nel Golfo di Napoli in occasione della visita di Hitler. Alle 10.30 del 5 maggio 1938, 76 sommergibili riemersero contemporaneamente, in file ordinate, sparando le salve di rito in onore del fuhrer. I battelli impiegati erano quasi il 90 per cento di quelli in servizio, anche se la propaganda parlò di cento unità subacquee.
Una manovra eseguita all’unisono, un risultato estremamente scenografico, con i 76 pennacchi di fumo bianco dei colpi a salve che spiccavano tra i colori straordinari del mare e del cielo, in una splendida giornata napoletana di primavera. E tuttavia, solo una dimostrazione “teatrale”, priva di qualsiasi valenza operativa ai fini bellici, tanto che un esperto sommergibilista come Luigi Longanesi-Cattani - che comanderà in Atlantico gli ottimi Benedetto Brin e da Vinci - la liquidò come non più di una “esercitazione di delfini ammaestrati”.
1300 bare d'acciaio. La guerra sotto i mari 1939-1945
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