Gesualdo Bufalino

Bompiani, 2006 - Forse pochi sanno che Gesualdo Bufalino aveva iniziato a scrivere, poco tempo prima di perdere la vita, un romanzo ispirato a José Raul Capablanca, grande scacchista cubano.

Non a tutti forse è noto che Gesualdo Bufalino sia stato lettore puntuale e narratore forbito di fotografie tra fine Ottocento e primo trentennio del Novecento.

Ciascun secolo che passa modifica la fisionomia del personaggio, la sua nuova identità fa così comprendere una “condizione o nuova visione di vita”, vista nell’ambito della coscienza collettiva.

Una raccolta poetica a cui l’autore affida in plurimi percorsi la complessità dei moti dell’animo.

847 aforismi per usare un termine onnicomprensivo anche se generico. In effetti vi si ritrovano anche riflessioni più articolate, brevissimi testi narrativi, frammenti autobiografici e citazioni.

Eros e Thanatos, dunque: voci consonanti e dissonanti entro le quali si scandiscono i ritmi vitali e che fanno pensare alla “luce” e al “lutto”. Antinomia, questa, da cui prende titolo il volume di Gesualdo Bufalino “La luce e il lutto”.

Il filo conduttore è il ricordo della realtà perduta e ritrovata in un ampio ventaglio di sentimenti, capaci di suscitare emozioni e consapevolezze.

Nel maggio del 1946 l’io narrante giunge al sanatorio “La Rocca”, presso Palermo”, con la sua povera cassetta d’ordinanza da ufficiale, per curarsi di tisi: infezione che mieteva vittime dai “poveracci” ai “signorini”.

Il romanzo ha come epigrafe in latino il verso di Ovidio che, tratto da “Le Metamorfosi” (I, 720-21), parla della morte di Argo, la mitologica bestia priva ormai di quella luce che teneva desti i suoi cento occhi. Le rievocazioni pressoché diaristiche di un professore di lettere.