

È un romanzo autodiegetico Diceria dell’untore (prima edizione Sellerio, 1981), dove Gesualdo Bufalino si fa protagonista d’una storia intima e autobiografica, resa efficace da una scrittura originalmente preziosa, elevata, ricca di virtuosismi stilistici (ossimori, metafore, iperboli ed esubero di parole, aforismi…), di rilevanti venature poetiche, nonché di una modalità esistenziale segnata dalla malattia e dall’angoscia, dalla morte e dalla voglia di vivere unitamente al bisogno di esplorarsi.
Sicuramente va visto come un pellegrinaggio liberatorio e catartico che viene redatto con l’abbozzo del testo verso il 1950 e completato nel 1971, dopo un ventennio di continue revisioni. Vediamone ora i personaggi con le loro inquietanti storie.
I tisici, protagonisti del romanzo
È nell’estate del 1946 che l’io narrante, a ventisei anni, giunge al sanatorio “La Rocca” di Palermo, con la sua povera cassetta d’ordinanza da ufficiale (metafora degli anni consumati dalla guerra), per curarsi di tisi;
un re forestiero m’era venuto ad abitare sotto le costole, un innominabile minotauro, a cui giorno per giorno dovevo in tributo una libbra della mia vita
Era un’infezione che mieteva vittime dai “poveracci” ai “signorini” senza risparmiare nessuno. Untori sono i tisici, perché contagiano chi li avvicina, e li allea il tacito patto di non sopravvivenza: nessuno perdonerebbe la guarigione dell’altro. “Compagni di prigionia”, vengono chiamati dal protagonista gli ammalati del sanatorio e ciascuno ha la propria irripetibile storia personale, ma comune la fine è imminente. Vivono per la morte, ed essa è sicuramente l’asse nevralgico dell’intera vicenda.
Bastava talvolta, tra sonno veglia, un fischio addolcito dalla distanza, oppure il cigolo dei carri di zolfo in fila per la collina, e si balzava col cuore in tumulto, seduti sul tetto, a origliare le invidiate informazioni e leggende di quella stella infedele in cui s’era trasformata la terra
Alla Rocca, luogo di negazione del mondo che produce estraniazione e provoca il bisogno di fantasticare sui segni provenienti dall’esterno, il reparto maschile è diviso da quello femminile, entrambi separati da uno steccato d’edere e da pali che però non impediscono la messa in atto di stratagemmi idonei alla comunicazione: per la sua inutilità, quella separazione veniva chiamata “la Maginot”.
Tanti i cosiddetti compagni di prigionia in cui lo stesso Bufalino dice di potervisi riconoscere per qualche dettaglio:
A volte mi sembra che i miei personaggi abbiano vita propria; ma no, a pensarci bene, sono me, non sono me. Sono miei servi, miei padroni.
Il Gran Magro, medico-direttore


Link affiliato
Il personaggio ad apparire per primo, presentato in modo teatralmente ridondante, è il medico-direttore della casa di cura Mariano Grifeo Cardona di Canicarao (già il lungo nome sembra volere incutere paura!), detto il Gran Magro e visto come “Napoleone fra gli appestati di Giaffa”.
Inclina all’ironia la descrizione che stempera i tratti negativi della sua strana personalità: perfido e sadico mistificatore, figura rinsecchita e sciupata che si sostiene a un bastone. Dimora nella clinica; trascorre le ore nel suo dimesso laboratorio “fra matracci e brodi di bacilli in colture”; è diviso dalla moglie (“una siracusana di spaventosa bellezza, sulla cui foto sputava, dicevano, tutte le mattine, prima di lavarsi”). Ha di nascosto relazioni con le ammalate e anche con una suora.
La musica, grazie a lui, non scarseggia, dato che ha l’abitudine, sistematicamente quotidiana, di trasmettere canzoni sia per la sveglia che per la ritirata serale nella camerata. Non è soltanto il potentissimo pontefice che ogni mattina si pronuncia sullo stato della malattia, bensì, nelle ricorrenze, assolve al ruolo di “procuratore di collettive letizie”, quali “luminarie”, “quadri animati”, “presepi”, “opere buffe”. In qualità di regista organizza tra i ricoverati spettacoli teatrali. Lui e l’io narrante si danno del tu per una intesa reciproca: discutono di filosofia e giocano a scacchi. Ma il loro sodalizio si affievolisce quando il Gran Magro si accorge che il giovane ufficiale, nel corso di una rappresentazione, manifesta attenzione per Marta, già sua amante. In seguito, per gelosia e invidia, lo tratterà non più da amico, ma come “cliente”.
Padre Vittorio, il cappellano militare
Spicca la figura del cappellano militare padre Vittorio che, già in crisi sulla propria fede e in bilico fra pietà ed empietà, si fa inquinare dal protagonista le credenze religiose fino ad affermare, prima di morire, di sentirsi un prete per finta. Disperata la speranza. Si sbriciolano in lui preghiere e altre lodi divine, basate sulla Rivelazione che non scalfisce le convinzioni miscredenti dell’interlocutore. Gli confida infine di non essere felice e, chiedendosi il perché, ritiene che la causa sia da addebitarsi alla consunzione della malattia che gli va guastando l’anima.
La fine del capitolo V, la “Filotea” contiene succinte, ironiche meditazioni che mostrano un rapporto conflittuale con Dio, detto “gigantesco eufemismo”. Sacrilego ed empio, profanatore e blasfemo appare il Gran Magro quando parlerà della morte del sacerdote:
Non è che uno dei nostri, un pio galoppino, il rampollo di un presepe meticcio. E ti concedo ch’è morto bene, senza frignare troppo. Glorificando il gesto della morte altruista. Gli si potrebbe intitolare un complesso, come m’insegnavano a Vienna. Il complesso di Cristo, Der Christumcomplex, suona benissimo, sembra il nome d’una vitamina…
Adelmo, Angelo e Sebastiano
Commuove la relazione del narrante con il bambino Adelmo, il quale, ignaro della sua condizione, chiede il racconto di storie nonché il dono di dolciumi.
E c’è Angelo, che affidava a una suora lettere con date fittizie, da spedire alla madre, “una alla volta due volte l’anno: le raccontava “il romanzo futuro di sé”, immaginando guarigioni, paternità, impieghi, successi allo scopo di rassicurarla e farla così vivere più a lungo.
Va anche ricordato il giovane Sebastiano, un fuori corso di medicina, che manifesta il desiderio di avere un figlio perché possa in lui prolungare la vita con “una memoria qualunque in cui sopravvivere”; anche questo suo compagno di viaggio decide di farla finita, sfracellandosi dalla tromba delle scale con un riso senza luce.
Marta, principale figura femminile
Muoiono tutti di settimana in settimana, l’uno dopo l’altro. Lasciano segni indelebili, ma è Marta a contare più di tutti nella confessione del protagonista: figura misteriosa che dimora nel reparto femminile, la donna di cui egli si innamora mentre assiste a uno dei soliti spettacoli teatrali tenuti alla “Rocca”: la più “fradicia”, la più ammalata terminale che gli fa vivere indimenticabili momenti.
Centrale è la loro storia d’amore che sboccia a seguito di una rappresentazione teatrale messa in atto dal Gran Magro. Deliziosa la descrizione di lei in un suo numero di danza (una scena da medievale “danza macabra” di fronte “a un pubblico di malati, relitti bellici già preda di incombente morte”, è stato detto), dove s’incarnano gesti e movimenti “in una intenzione di volo” (era stata, Marta, ballerina alla Scala). Ed è la danza, che conferisce al corpo sembianze da favola, ad ammaliare il protagonista, il quale fa di lei una idealizzazione angelicata con l’uso d’una poetica espressionistica contenente presagi di morte:
Oh certo, un serafino era, dalla vita sottile e dalle ali roventi, con occhi come ciottoli d’ebano nel fiero ovale ammansito da una corta chioma di luce.
Alla fine dello spettacolo la raggiunge nello stanzino, adibito a spogliatoio, per invitarla perentoriamente a uscire con lui, in considerazione del poco tempo che a entrambi resta di vivere. Evasione dalla noia dell’attesa della morte? Opportunità irrinunciabile per evitare il gesto estremo del suicidio come era successo a Sebastiano? Approdo salvifico che li faccia sentire vivi in un luogo di reclusione dove soltanto la morte è presente?
Il narrante ripensa a un film visto tanti anni prima: “Amanti senza domani”, il titolo. Gli vengono in mente i due protagonisti su un ponte di transatlantico: lui, “un losco galante”, atteso dalla sedia elettrica alla fine della traversata; lei, che i medici hanno data per spacciata, ogni sera “indossa una pelliccia sempre più bella”, per scordarsene. S’incontrano: ognuno sa della condanna dell’altro, ma vogliono ignorare la loro sorte crudele. E ballano insieme, e si sussurrano dolci parole sotto la luna. Analoga la sua sorte con Marta: una tresca d’amore come impulso alla non arrendevolezza dinanzi a un destino ineluttabile.
Senza alcun timore di contagio che avrebbe peggiorato la precaria situazione, la relazione si snoda fra baci e carezze al chiaro di luna, tra colpi di tosse, languidi sguardi e passeggiate per le vie di Palermo.
È il Gran Magro a fargli un accenno sull’identità di Marta: “Quella, strichten verboten”, gli sibila con l’invito a non fiatargli addosso.
L’Adelina è un’altra ricoverata a dargli informazioni più esplicative intanto che la sua infelice storia acquisterà più consistenza nel corso della narrazione.
La Petacci vuoi dire? Ma è una delle più fradicie… non la curano quasi più, le lasciano fare quello che vuole, perfino ballare, l’hai visto.
Al sanatorio sanno tutti che lei aveva avuto un rapporto sentimentale con un ufficiale tedesco e che le avevano rasato i capelli. L’amore per lei diviene una favola alla Rocca, ancorché Marta le apparisse “un simulacro di donna” e, tuttavia, l’unico essere a restargli nel suo “disabitato universo”:
Un’esclusa, un’anima persa: giusto la socia che mi serviva.
I due, favoriti dall’intermediazione di Adelmo (“giocattolo, figlio e portafortuna”), in città camminano a braccetto col portamento di giovani sposi e conversano con piacevole ironia sulle loro esperienze di vita, inventate o meno. Marta decide poi di rivederlo.
È la domenica del 18 agosto quando il giovane ufficiale si prepara con entusiasmo al “convegno d’amore”. La aspetta presso un chiosco di bibite e granite, dove lei l’avrebbe raggiunto. Si trastullano a pedinare qualcuno e si ascoltano amorosamente e in una camera a ore dove fanno l’amore senza alcun timore del contagio:
Quella domenica 18 agosto è, fra i giorni della mia vita, uno dei tre o quattro che mi recito da cima a fondo, quando voglio cercare di raggiungere l’estasi di rivivermi. Mi spiego: io col passato ho rapporti di tipo vizioso e lo imbalsamo in me, lo accarezzo senza posa, come taluno fa coi cadaveri amati […]. Sento a volte che basterebbe un niente, un filo di forza in più o un demone suggeritore… e sforzerei il muro, otterrei, io che il Non Essere indigna e l’Essere intimidisce, il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere… Riessere, this is the question.
Muore Marta: muoiono tutti e l’unico a guarire è lui. Qualche giorno prima che lasciasse il sanatorio, muore il Gran Magro fra il pianto di suor Crocifissa:
Stava con lui alla Rocca dai tempi della giovinezza, gli era carinamente legata, fino ad assisterlo con le sue mani nella miseria finale, quando defecava fra le lenzuola. E ora si lamentava, in dialetto, senza velo, coi grigi cernecchi sulla fronte, scapigliata e monotona come una rugosa Madonna, tenendo il capo di lui fra le braccia.
Il Gran Magro fa in tempo a vederlo anche per consegnargli l’eredità promessa: “il fascicolo di Marta, e con esso una pila di calepini, i segreti diari di lui”. Adesso la fisionomia di lei si completa. Il suo vero nome era Levi Marta, anziché Blundo Marta come era stata registrata al suo ricovero. E già il lettore aveva appreso che era una ragazza ebrea: deportata in un lager, era riuscita a salvarsi per il suo collaborazionismo, nonché per l’aiuto di un capitano delle SS. A cosa gli avrebbero giovato quelle carte? Quali altri dati o immagini avrebbero potuto sconvolgere le notizie ormai possedute dal protagonista? “La stufa era lì accanto”: sicché, egli non esita a liberarsene.
La voce narrante: la malattia come pedaggio e percorso
La seconda data è il 1971: venticinquesimo anniversario della dimissione dalla Rocca. Inquietano riflessioni e domande sulla guarigione del protagonista che, recando in sé la testimonianza della sofferenza e la sua “sporcizia invisibile”, si chiede come sarebbe stato accolto dal mondo.
Malinconica appare la descrizione del paesaggio brumoso di novembre; nel momento del congedo definitivo (“Il cancello della Rocca mi si chiudeva alle spalle con un silenzio di tenda”), contornato da laceranti interrogativi che subito lasciano il posto a un senso di rinascita, così si esprime lo scrittore quasi rivolgendosi all’aria che amica l’accoglie:
Allora, in gara col fiato dei pini che mi giungeva a folate di sopra il muro di cinta dell’ospedale, volli inghiottire un sorso lungo di nebbia, fino a irrigarmene e a nutrirmene ogni più remoto e vulnerabile alveolo: parendomi, quel gesto, un novissimo battesimo, da cui dovesse cominciare a contarsi la vita che mi restava.
L’io narrante, “in altalena fra delusione e speranza”, reca con sé il vissuto di come si possa sentire un uomo in bilico tra la vita e la morte. Avrebbe rivisto nei sogni futuri la Rocca come
un livido colombario di pietra, una carena di bastimento, incagliata per l’eternità fra le radici dei rampicanti, col suo carico d’annegati.
Sicuramente l’aspettava “una vita nuda, uno zero di giorni previsti senza una brace né un grido”. Egli ne era evaso, “per chissà quale disguido o colpo felice di dadi”, sentendosi più derelitto e più triste. Come Giano bifronte, “giovane solo a metà, e vecchissimo l’altra metà”, avrebbe ora preso parte alla vita ordinaria degli uomini, ancorché spoglia di aneliti. Quale la giustificazione alla sua sola salvezza dalla falcidia?
Per questo forse m’era stato concesso l’esonero; per questo io solo m’ero salvato, e nessun altro, dalla falcidia: per rendere testimonianza, se non delazione, d’una retorica e d’una pietà.
Egli, lungo gli anni, dovrà portare, nascosta sotto la lingua, la sua diceria, pensata “come un obolo di riserva”. Gli servirà come lasciapassare:
Pagare il barcaiolo il giorno in cui mi fossi sentito, in séguito ad altra e meno remissibile scelta o chiamato sulle soglie della notte.
L’esperienza della malattia come pedaggio e percorso, a un tempo, può dirsi la nota dominante del protagonista.
Coinvolgono certe immagini legate alla raffinate letture del nostro scrittore sul mondo classico. Nella mitologia greca, Caronte è il traghettatore dell’Acheronte, fiume che divide il mondo dei vivi da quello delle anime morte, ormai purificate secondo Platone. Custode è, dunque, dello spostamento verso l’ultraterreno (l’Ade), al quale era dovuto il pagamento di un obolo (“L’assunzione cristiana della colpa”). Il “triste eresiarca” – così Bufalino si definiva – quando giungerà la sua fine, se ne andrà con Caronte al pari di Padre Vittorio. È, dunque, lo stigma della sofferenza a farsi viatico d’una speranza insperabile, d’una sorte scritta per essere recitata.
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: I personaggi di “Diceria dell’untore” di Gesualdo Bufalino
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo Gesualdo Bufalino News Libri Storia della letteratura
Lascia il tuo commento