

Quando seguiamo un programma di approfondimento politico alla TV o leggiamo un quotidiano potremmo esserci imbattuti nella celebre frase “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”, motto coniato nell’Ottocento che ha riscosso, in seguito, vaste fortune.
L’aforisma è anche oggi di stringente attualità, non solo e non tanto se pensiamo al conflitto in Ucraina quanto piuttosto se riflettiamo sull’ennesimo capitolo della questione israelo-palestinese: soprattutto in quest’ultimo caso, ci pare davvero che la guerra prosegua, in modo più cruento e spietato, un proposito politico o, lato sensu, antropologico, evidente nelle parole dei politici israeliani più radicali, come anche nelle dichiarazioni dei coloni più integralisti e intransigenti.
Affermare, però, che la guerra è continuazione della politica con altri mezzi, come vedremo, è anche l’etichetta che connota una specifica posizione teorica che travalica la pura e semplice teoria militare per sconfinare nella politologia e anche nella filosofia. Proprio per questo il testo che contiene questa massima e il suo autore furono letti e studiati non solo da grandi generali che decisero le sorti del primo e del secondo conflitto mondiale ma anche da pensatori, che talvolta li recuperarono e altre li criticarono, e da scuole politiche solo apparentemente molto distanti dal contesto in cui questo modo di dire fiorì.
Riscopriamo, allora, insieme il significato dell’aforisma La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi e chi l’ha detto.
La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi: chi l’ha detto


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La nostra celebre frase è stata coniata da Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz (Burg, 1 luglio 1780 – Breslavia, 16 novembre 1831), valoroso generale prussiano che aveva speso gran parte della sua breve vita a contrastare l’avanzata di Napoleone Bonaparte. Egli fu anche l’autore di un celebre trattato di arte militare, Della guerra, pubblicato postumo un anno dopo la sua morte prematura, e mai completato.
Come risulta evidente dalle sue teorie, von Clausewitz fu molto influenzato dal pensiero di Hegel: affermare che la guerra è la continuazione della politica non significa altro che ritenere i conflitti l’ennesima configurazione di quello scontro dialettico di forze che, nel loro gioco di opposizione e superiore conciliazione, muovono il motore del progresso. Anche il filosofo di Jena, d’altra parte, diversamente dal pacifista Kant, esaltava la guerra che riteneva una manifestazione della forza dello Spirito, sempre intento a superare il finito in vista di una più ampia e consapevole libertà. Più semplicemente, la tragedia e la guerra, per Hegel, erano momenti di caduta momentanei, tragedie estemporanee che, poi, si sarebbero risolte in una più rassicurante commedia.
Fu forse per questo che anche gli ambienti intellettuali marxisti e i paesi sovietici dove si era imposto il marxismo e il leninismo, guardarono sempre con grande favore al trattato di von Clausewitz, tanto da utilizzarlo come manuale nelle scuole di politica e nelle accademie militari.
Dopo essersi assicurato grandi successi e apprezzamenti nell’Ottocento, fino a diventare un classico di polemologia, Della guerra di von Clausewitz, trovò nel Novecento anche acuti critici e oppositori.
Furono soprattutto Carl Schmitt e Michel Foucault a rovesciare, pur da punti di vista diversi, l’assioma del generale prussiano, ritenendo che tra le due attività fosse la guerra, e non la politica, ad avere un ruolo più fondamentale e primario. In quest’ottica, allora era la politica a diventare la prosecuzione della guerra con altri mezzi e non viceversa.
I due filosofi maturarono questa convinzione soprattutto alla luce della Conferenza di pace di Parigi, che gettò i vinti della Grande guerra in una condizione umiliante. Pur con nette differenze, rifiutano entrambi l’assunto che la politica trovi la sua origine nella Polis, ovvero che possa essere considerata come un’attività positiva e unificante, al cui fondo si ritrovi un’esperienza di condivisione e aggregazione. Secondo Schmitt e Foucault, piuttosto, intendevano la politica come luogo dell’occultamento e della mistificazione, dietro e prima di essa si agitavano forze oscure che assoggettavano e sottomettevano, o tensioni essenziali come quella amico/nemico, alle quali erano connaturati effetti distruttivi, opposizioni fondamentali che trovavano la loro espressione più convincente nel termine greco Polemos, identificato come la vera radice della pratica politica.
Cosa significa: la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi
Per comprendere compiutamente qual è il significato del nostro aforisma occorre, innanzitutto, richiamare l’intera proposizione in cui la frase compare:
"La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è, dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi".
Con queste parole, Carl von Clausewitz, individua non solo la causa principale della guerra nell’attività politica ma afferma che, in un qualsiasi contesto di natura politica, l’attività di governo che generalmente e fisiologicamente si svolge in tempo di pace, è gerarchicamente superiore alle operazioni belliche, queste ultime sono solo strumenti e conseguenze estreme dell’azione politica, senza la quale non verrebbero agite e, quindi, in definitiva, non esisterebbero. In altri termini, non potrebbe darsi guerra, né dal punto di vista strategico-progettuale, né sul piano operativo, senza qualcuno che prima, a livello politico, lo abbia deciso.
Ciò consente di chiarire anche le altre riflessioni che von Clausewitz svolge nell’importante trattato che contiene il nostro aforisma: egli afferma, infatti, che la guerra non è mai un evento isolato, non scoppia all’improvviso e anche la sua propagazione non avviene in un tempo ristretto. L’evento bellico sembra dunque essere un atto minuziosamente predisposto che non si realizza d’emblée ma si svolge anche con tempi dilatati e con ritmi meditatamente scanditi.
Questo perché, secondo un’altra posizione teorica di von Clausewitz, meno conosciuta ma senz’altro più determinante, la guerra può essere considerata come il teatro in cui vanno in scena, interagiscono e si scontrano tre forze, e tre gruppi sociali, ben distinti:
- l’istinto cieco, ovvero i sentimenti più primordiali e brutali come l’odio e la violenza, che il nostro generale riconduce soprattutto al popolo;
- la libertà dell’anima, che è una prerogativa del comandante e del suo esercito, e si esprime soprattutto nel valore militare, nell’azzardo e nella propensione al rischio, nella valutazione delle probabilità;
- la pura e semplice ragione politica che è esercitata dai rappresentanti dei governi e che costituisce l’unico elemento razionale in gioco nella guerra.
Von Clausewitz riesce così a dar vita a un pensiero molto moderno, soprattutto per l’elemento romantico che la contraddistingue: a differenza di altri celebri precedenti, come L’arte della guerra di Sun Tzu, egli è il primo teorico militare che riconosce e sottolinea l’importanza del sentimento bellico, tematizza così le sfumature emotive che, nel contesto bellico, agitano non solo i popolani ma anche i combattenti, siano essi semplici fanti o graduati che possono decidere le sorti di una battaglia.
La guerra come attività politica nel contesto geopolitico attuale
Che la guerra sia continuazione della politica con altri mezzi lo dimostrano bene anche le differenti tipologie di conflitto che si sono consumate nel passato più o meno recente e che, ancora oggi, affliggono il contesto geopolitico mondiale. Oltre ai conflitti propriamente militari (etichetta sotto la quale possiamo ricondurre la guerra tradizionale, terroristica, nucleare e chimico-batteriologica, solo per fare alcuni esempi), gli storici e gli studiosi di polemologia hanno distinto anche:
- i conflitti trans-militari, dove trovano posto fenomeni liminali quali la guerra psicologica, la contesa diplomatica, lo spionaggio e il controspionaggio, il contrabbando, le guerre virtuali e informatiche;
- i conflitti non-militari, che hanno, appunto, una natura più squisitamente politica e si realizzano attraverso gli strumenti finanziari, i dazi e i blocchi doganali che possono influire pesantemente sui commerci internazionali, le sanzioni e gli embarghi, le disposizioni normative e le campagne mediatiche.
A prescindere, però, dalle differenti maschere che un conflitto può assumere, la sua finalità sembra essere in ogni caso quella individuata da von Clausewitz: più o meno brutale che sia, la guerra è sempre
“un atto di violenza il cui obiettivo è costringere l’avversario a eseguire la nostra volontà”.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”: significato e chi l’ha detto
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