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Kant: la Critica della Ragion pratica e la Critica del giudizio

I concetti chiave per leggere la Critica della Ragion pratica e la Critica del giudizio di Immanuel Kant e approfondire queste opere in vista degli esami di maturità.

Simone Casavecchia
Simone Casavecchia Pubblicato il 25-06-2016

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Kant: la Critica della Ragion pratica e la Critica del giudizio

Dopo la fatica necessaria per la comprensione della Critica della Ragion Pura, la Critica della Ragion Pratica (1787) e la Critica del Giudizio (1790) di Immanuel Kant (1724-1804) consentono ai lettori di apprezzare l’universo morale ed estetico del filosofo di Konigsberg, fornendo anche utili spunti per gli studenti impegnati nella redazione della tesina e nella preparazione degli esami di maturità.

Ecco un riassunto con i principali concetti chiave presenti nella Critica della Ragion pratica e nella Critica del giudizio, che consente di evitare semplificazioni molto comuni riguardo all’opera di Kant (come la distruzione della metafisica) e di cogliere elementi fondamentali per avere un quadro completo della sua filosofia, come la morale, l’esistenza di Dio, la filosofia della natura e la filosofia del bello. Questi temi, più facilmente collegabili con le altre discipline studiate a scuola, possono essere utilizzati con profitto anche dagli studenti, per la redazione di una tesina da discutere durante gli esami di maturità.

La Critica della Ragion pratica di Kant

Il concetto principale e più noto della Critica della Ragion pratica è quello di legge morale ovvero di un principio, universale e comune a tutti gli uomini che, se riconosciuto e seguito, consente di agire in modo retto e giusto. Per Kant - che dalla sua trattazione esclude il concetto di fine e, quindi, qualsiasi prospettiva etica di carattere utilitaristico - la legge morale è caratterizzata dall’autonomia, è formale e categorica.
Per autonomia si intende che la ragione, attraverso la legge morale che riconosce in sé stessa, dà anche una legge, ossia una regola d’azione, a sé stessa senza dipendere da qualcos’altro. L’etica, infatti, quando è eteronoma trova, secondo Kant, la propria legge in altro. Se, ad esempio, si apprende dalla metafisica che la vera natura della realtà è in un certo modo e che, sempre per rimanere all’interno del nostro esempio, realtà spirituali come Dio e l’anima sono superiori all’uomo (rappresentano il vero essere che sussiste al di là del divenire, come voleva la vecchia metafisica), allora anche l’agire umano dovrà uniformarsi a queste conclusioni: in tal modo il dover essere sarà derivato dall’essere e, quindi, andrà a privilegiare valori spirituali.
Sia che si tratti di metafisica, di esperienza, di passioni o di un qualche fine utilitaristico, Kant rifiuta qualsiasi eteronomia in campo morale: la metafisica viene esclusa perché nella Critica della Ragion pura è stata reputata una conoscenza fallace; l’esperienza, d’altra parte (e con essa, quindi, i moventi di carattere utilitaristico e le passioni), viene rifiutata perché se posta a fondamento dell’agire morale, lo priverebbe del carattere dell’universalità che gli deve essere proprio.
Una morale autonoma è quella che trova la propria legge in sé stessa e che, quindi, si fonda in sé stessa; per questo stesso motivo la massima (ossia la proposizione o, più semplicemente, la frase) che la esplicita, non potrà essere di carattere ipotetico (perché, appunto, porrebbe una condizione, un fine ulteriore: “fa così se...”) ma dovrà essere categorica.
Altro aspetto della legge morale è il suo formalismo, ovvero il suo essere “vuota”, dal momento che non si fonda su una qualche verità metafisica: ciò significa che non darà indicazioni precise e concrete riguardo a ciò che si deve fare e non fare; fornirà, piuttosto, dei criteri assolutamente generali, universali, a cui uniformarsi:

  • “opera in modo che la massima o legge della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”;
  • “opera in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona che nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine e mai unicamente come mezzo”;
  • “opera in modo che la volontà possa, in forza della sua massima considerare se stessa come legislatrice universale” (bisogna essere come Dio e chiedersi: “lo farebbe Dio?”);

La dialettica della Ragion pratica di Kant

Nella seconda parte della Critica della Ragion pratica Kant recupera le verità della metafisica distrutte nella prima Critica: se il nuomeno, l’incondizionato, non può essere raggiunto per via teoretica, può però essere postulato, ovvero “derivato” come conseguenza della legge morale scoperta in noi.
La legge morale, infatti, è per Kant un “fatto della ragione”, un dato incontrovertibile che l’uomo scopre in sé stesso e che non si fonda su altro, ad essa esterno. Il dato della legge morale permette di indirizzare il nostro agire e di distinguere le azioni rete, sebbene, affinché le nostre azioni morali possano considerarsi come pienamente compiute, dobbiamo considerare vere:

  • l’esistenza di Dio quale garante di una necessaria proporzione tra virtù e felicità, una proporzione che nella vita terrena, in realtà non è data;
  • l’immortalità dell’anima, dal momento che nella vita terrena l’essere e il dover esser non coincidono mai perfettamente: in altri termini, nessun individuo, per quanto retto, riesce a essere completamente virtuoso, per questo la vita va pensata come infinita, così da poter permettere l’avvicinamento massimo alla vita morale;
  • la libertà del volere, un assunto, quest’ultimo, che sembra ovvio a Kant perché per meritare un premio (il sommo bene, ovvero la felicità come ricompensa della vita virtuosa, ammesso Dio come garante di tale felicità) o una punizione occorre essere necessariamente liberi di scegliere tra bene e male.

La religione nei limiti della sola ragione

La dottrina morale di Kant già sommariamente esposta nella Fondazione della metafisica dei costumi, viene completata da La religione nei limiti della sola ragione (1793), uno scritto di carattere teologico, oltre che filosofico necessario perché se si ammette la necessità morale di Dio, allora si ammette anche che esista una qualche forma di religione.
Trattandosi di una religione limitata dalla ragione, Kant esclude qualsiasi forma di religione rivelata e, quindi, nega verità del Cristianesimo (come di altre religioni) quali i fenomeni soprannaturali, i miracoli e la natura divina di Gesù.
Alcuni concetti cristiani sono, invece, ripresi e laicizzati: è il caso del peccato originale che, in quest’opera diventa male radicale, un male che è insito nella natura umana (il legno storto) e che l’uomo, per seguire la legge morale, deve sforzarsi di contrastarlo.
Ciò per gli uomini virtuosi (per gli uomini che seguono la legge morale), diviene possibile se fanno fronte comune e uniscono le loro forze: anche in questo caso ci troviamo di fronte a un altro concetto cristiano – quello di chiesa, intesa come ecclesia, comunità – ripreso e rivisitato in chiave laica.
Infine, occorre considerare la nozione di fanatismo che è, mutatis mutandis, la nozione cristiana di santità, aspramente criticata da Kant, convinto dell’irrazionalità di precetti come il perdono senza riserve e l’amore per i propri nemici che, appunto, trovano la loro giustificazione nell’irrazionalità del fanatismo e non nella legge morale che non pretende mai che venga fatto più di quanto essa stessa richieda.

La Critica della facoltà di giudizio

La terza critica attraverso la considerazione della bellezza naturale e della bellezza artistica (il sublime) tenta di gettare un ponte tra il mondo dei fenomeni studiato nella prima critica e il mondo della legge morale, e quindi dei noumeni, tematizzato nella seconda.
Se la scienza, giustificata dalla Critica della Ragion pura, deve accontentarsi dei fenomeni senza raggiungere il noumeno e la legge morale, scoperta nella Critica della Ragion pratica, deve postulare, pur senza poter dimostrare, il noumeno, la Critica della facoltà di giudizio, riesce a “intravedere” nell’esperienza della bellezza, naturale e artistica, il noumeno (“il cielo stellato sopra di me”, richiamato alla fine della seconda critica, quasi a mo’ di introduzione alla terza).
Il tema della bellezza getta un ponte tra la sfera fenomenica e quella noumenica dal momento che la bellezza sia essa propria di un fenomeno naturale o di un prodotto artistico, si dà nel mondo fenomenico, in un oggetto o in un fenomeno visibili, dentro cui, però, si scorge in qualche modo, rende manifesto il noumenico, ossia l’Assoluto.
Nella terza delle sue opere principali, intitolata (se si traduce in modo corretto il titolo originale) Critica della facoltà di giudizio, Kant distingue due differenti tipi di giudizio:

  • il giudizio determinante è il giudizio proprio della sfera teoretica e della scienza, dove il soggetto gioca un ruolo attivo perché legge i dati forniti dalla sensibilità attraverso le proprie categorie; in tal modo il soggetto pone l’elemento formale (lo spazio, il tempo e le categorie, gli elementi universali della conoscenza) e, così facendo, plasma l’oggetto conosciuto;
  • il giudizio riflettente è il giudizio proprio dell’esperienza della bellezza, così chiamato perché riflette altro da sé e perché l’elemento formale non viene imposto dal soggetto ma viene scoperto nel dato oggettivo.

È per questo che, attraverso il giudizio riflettente, è possibile cogliere la bellezza, come una traccia del mondo noumenico, presente nell’ambito fenomenico.
In tal modo Kant tematizza un’altra e diversa modalità conoscitiva, di natura non concettuale e non argomentativa, che riesce a dar conto dell’esistenza del mondo noumenico e, quindi, dell’Assoluto, in tutta la sua positività.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Kant: la Critica della Ragion pratica e la Critica del giudizio

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