Venere in metrò
- Autore: Giuseppe Culicchia
- Casa editrice: Mondadori
- Anno di pubblicazione: 2012
Leggendo Venere in metrò ad un certo punto sembra di essere in uno dei romanzi di Bret Easton Ellis, uno di quelli zeppi di nomi di griffe, brand, ritrovi di tendenza, riviste glam. Giuseppe Cullicchia ha anche tradotto dall’americano Bret Easton Ellis, ma non saltate subito alle conclusioni: il suo “Venere in metrò” (Mondadori, 2012) è un romanzo potente & intelligente di suo, stralunato/spietato, ilare/drammatico, dialettico, ossimorico come una carezza in un pugno. Nel romanzo ritroviamo anche il refolo dell’happy end tra abbondanti interstizi di horror vacui, per consolidare il fatto degli italiani-tutto sommato-brava gente, che si può far ridere anche facendo piangere e che dal romanzo di denuncia al nichilismo fine a se stesso di “American Psyco” ce ne passa.
“Venere in metrò” è un reportage - con anima e cum grano salis - in diretta dal crollo della civiltà, un’odissea esistenzial/metropolitana, farcita di sorrisi, lacrime, ectoplasmi tv e canzoni (in effetti una sola: il tormentone della Carrà “A far l’amore comincia tu” remixato da Bob Sinclar, vuoi mettere?).
Sullo sfondo di una Milano-emblema di metropoli omogeneizzata, Gaia (wasp all’italiana per grazia parentale ricevuta e dunque iper griffata-tecnologizzata, anaffettiva di fatto, anoressica di ritorno) alle soglie dei fatidici anta si sorprende nei guai e sul viale del tramonto: ha appena perso in un sol colpo marito + lavoro creativo; le restano (sul groppone) una psicoanalista da trecento euro a botta, una madre castrante & distante, due amiche scombinate a partire dal nome (omen) - Ilaria e Solaria -, una figlia simil-autistica, un amante dalla sessualità borderline e soprattutto il reticolo dei locali da vippame meneghino che frequenta più per compulsione che per reale convinzione (una fauna metropolitana popolata da tiratori di coca, simoneventure-belenrodriguez-calciatori-visagisti & cloni, sventole rifatte-strafatte, macho-man da ritrovo gay). La polpa più succosa del libro di Culicchia sta proprio in questa reiterazione di incontri ravvicinati del terzo e quarto tipo, nelle disavventure metropolitane (appena una spanna sopra le trovate slapstick più intelligenti) che da un certo momento in poi si succedono nella vita della protagonista, offrendosi a pretesto serio - serissimo, anzi di più - per un discorso su tempi, modi, mode, vecchi e nuovi mostri della contemporaneità trendy made in Italy.
Un campionario industriale di sarcasmo, riveduto e corretto alla luce della verve che dai tempi di “Tutti giù per terra” immortala Culicchia come uno dei narratori “civili” più capaci, attenti, intelligenti, leggibili del panorama italiano. Lo scrittore si distingue per la capacità che ha di affondare con precisione entomologica nei tic - linguistici, relazionali, di “costume” - di un’antropologia umana in caduta libera e di farlo senza l’aria intellettualoide di un De Carlo e/o di un Veronesi, per intenderci, insinuando nel reiterato/alienato succedersi di parole, opere e omissioni neurali, impercettibili e ostinati sommovimenti del cuore, variazioni minime che lasciano socchiuso uno spiraglio alla presa di coscienza, all’affrancamento, a una possibilità di riscatto. Tutto questo succede in “Venere in metrò”, un romanzo che fa il punto sullo stato attuale (e peggiore) delle cose, restituendo un Giuseppe Culicchia nella sua forma migliore.
Venere in metrò
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forse non l’ho capito, ma è uno dei romanzi più brutti che io abbia mai letto......
libro identico a "brucia la città", cambia solo la città, i soggetti sociali coinvolti e il gergo. culicchia ha sempre una scrittuta molto piacevole, però le ripetizioni iniziano a diventare stucchevoli e il finale è davvero banale e semplicistico.