

Alcune incombenze burocratiche mi hanno portato per qualche giorno altrove, un’occasione buona anche per una scoperta inaspettata e sorprendente, il Piccolo Museo del diario di Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo. I battenti del suo portone sono proprio di fronte al municipio di un paesino sconosciuto che, forse, i più attempati ricordano vagamente per aver dato i natali ad Amintore Fanfani. Piccolo centro della Valtiberina, in quella lingua di terra toscana che separa l’Umbria dalla Romagna, Pieve a fine febbraio sembra un luogo di montagna; anche se non fa più freddo come una volta per due giorni non ho visto il sole, in compenso l’umidità e la pioggia, fina e intermittente, sono state compagne di viaggio discrete e fedeli. Molte attività chiuse, molti cartelli con sopra scritto “vendesi”, strade pulite, ordinate, poca gente in giro, piccoli fuoristrada e utilitarie, gli scarponi li portano anche le donne; a mezzogiorno, sui tavoli del bar principale, già diversi bicchieri vuoti, con un alone rosso sul fondo; quelli pieni sono anche più sfacciati perché di rosso ne ostentano un altro – quello dell’Aperol – più vivace e chiassoso. Si consuma presto perché ci si è alzati presto; è l’Italia minore, o forse migliore.
Qualcosa non torna per le vie del centro, tutte case basse, ma accanto a qualche edificio che alterna pietre bianche e grigie, anche davanti alla chiesa principale spiccano palazzine che non posso fare a meno di associare agli anni sessanta, troppo recenti per essere quelle di un borgo che almeno sulla carta mi aspettavo medievale. “Pieve è un paese brutto” mi dirà più tardi Rossella, la guida che mi accompagna al Piccolo Museo del diario e vive qui da sempre, spiegandomi poi che questa fisionomia anomala è il frutto di una storia recente dolorosa: ubicato nei pressi della Linea Gotica, tra il giugno e l’agosto del 1944 questo luogo fu oggetto della brutalità dei tedeschi in ritirata che, dopo aver ucciso uomini e animali, minarono l’intero abitato lasciando in piedi solo la chiesa principale. Un paese deprivato della sua memoria, insomma, che per una strana eterogenesi dei fini, ha fatto crescere nei suoi vicoli due luoghi che della memoria hanno fatto il loro oggetto di cura principale.
Come nasce l’Archivio Diaristico Nazionale
L’idea di creare un Archivio Diaristico Nazionale (oggi una fondazione) venne al giornalista Saverio Tutino, nel 1984: dopo aver partecipato alla Resistenza, lavorò per Il Politecnico di Vittorini e per l’Unità, partecipando anche alla nascita di Repubblica, poi, forse disilluso dal corso delle cose, scelse di fondare a Pieve, che non era la sua città, un archivio nazionale che raccogliesse diari, epistolari, memorie autobiografiche, parole private, scritti di gente comune che ancora oggi restituiscono uno sguardo inedito e originale sul secolo scorso e su quella grande storia che hanno scritto poi altri.
L’esca per avviare l’archivio fu un premio – il Premio Pieve, assegnato ancora oggi -, pubblicizzato con qualche annuncio sui giornali, riuscì subito a calamitare testi e raccolte di lettere che nel corso del tempo si sono moltiplicati fino a raggiungere oggi quota 10.000.
Chi curava l’archivio scelse di ordinare i materiali in base all’anno di invio e all’ordine alfabetico, e fu così che il primo piano di Palazzo Pretorio, a cui si accede salendo sedici gradini, iniziò a popolarsi di scaffali, uno per anno, che mettevano insieme scritture popolari di ogni genere, storie e prospettive molto diverse tra loro, che però rimanevano celate all’interno di cartelline colorate, lasciando insoddisfatti i visitatori che si aspettavano di trovare un museo.


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Il primo a redimere queste storie dal silenzio fu il drammaturgo Mario Perrotta, autore di Il paese dei diari (Milano; Terre di mezzo, 2009), un libro che gli era stato commissionato per raccontare i primi venticinque anni di attività dell’Archivio diaristico dove, grazie alla visionarietà di una storia di finzione, immagina di rimane chiuso all’interno dell’archivio e di incontrare il fantasma di Saverio Tutino, oltre ai tanti protagonisti dei diari e delle lettere: i fanti che combattevano al fronte durante la grande guerra e i poveracci che scelsero la spartenza, l’emigrazione di inizio secolo, gli adolescenti che negli anni Sessanta rimanevano incantati ascoltando Liszt e le ragazze che, un paio di decenni dopo, usano la scrittura per fare i conti con lo spettro dell’anoressia.
Il piccolo museo del diario e le memorie degli altri
È stato proprio il libro di Perrotta a fornire l’ispirazione principale a dotdotdot, uno studio creativo di Milano che ha realizzato il Piccolo museo del diario: mentre l’Archivio diaristico transitava nella piazza vicina, per dare spazio alla raccolta sempre crescente di testi cartacei, nelle sale di piazza Plinio Pellegrini prendeva forma un percorso multimediale che in sole quattro sale riesce davvero ad incantare per la sua forza evocativa.
All’inizio del percorso, ad esempio, c’è una parete tappezzata di cassetti dal pavimento al soffitto: basta aprirne uno per trovare un piccolo schermo grazie al quale possiamo visualizzare le pagine digitalizzate di un diario o di una raccolta di lettere e ascoltare la storia che raccontano, quel “fruscio degli altri” che è uno dei motti del museo. Ci sono poi le testimonianze sonore, i ricordi di Saverio Tutino, ma sono soprattutto le ultime due sale a sorprendere per le vicende che raccontano.


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Nella prima, su un tavolo interattivo, troviamo una Olivetti Lettera 22 in bella mostra: è l’attrezzo che Vincenzo Rabito, un bracciante siciliano, si sforzò di utilizzare nell’ultima parte della sua vita per scrivere la sua biografia (la possiamo leggere oggi in Terra matta), una lotta che Vincenzo combatté contro il suo semi-analfabetismo, dando vita a una lingua meticcia ed esilarante che, con un’impaginazione fittissima e un ritmo concitato, racconta cinquant’anni di peripezie, di sotterfugi e di furbizie per scampare a un’onnipresente miseria.
Il percorso si conclude con la sala dedicata a Clelia Marchi, una contadina mantovana che, sopraffatta dalla morte del marito in un incidente, decise di raccontare il suo matrimonio sul lenzuolo più bello del suo corredo nunziale: lo ricoprì per intero di parole, segnando le righe con dei numeri per guidare il lettore; oggi è la bandiera del Piccolo museo del diario (ma anche questa è una storia che non è passata inosservata: l’ha pubblicata il Saggiatore in Gnanca na busia).
La voce di chi non ha voce nella letteratura contemporanea
Che lo sguardo della gente comune, degli ultimi, degli analfabeti, porti con sé storie intriganti e avvincenti è una certezza sempre più solida anche per chi fa libri, nel nostro paese e non solo. Molto tempo fa Marcello Baraghini pubblicò la storia di una contadina toscana che non sapeva né leggere né scrivere per i tipi di Stampa Alternativa ma più recentemente sono molti i casi editoriali che hanno portato all’attenzione del grande pubblico voci devianti, dissacranti, irregolari e marginali:
- in Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax, Premio Campiello 2020) Remo Rapino ci accompagna nei ricordi e nelle memorie del matto del paese che, con occhi stravaganti e festosi, osserva personaggi, cadute e rivincite di gran parte del secolo breve;
- Storia di mia vita (Sellerio, 2024) racconta Roma vista con gli occhi di un senza fissa dimora: Janek Gorczyca, originario della Polonia è arrivato nella Capitale nel 1992 e non se n’è più andato: ha vagato per i suoi vicoli e le sue strade, ne ha conosciuto l’oscurità e la violenza, ne ha descritto la quotidianità con uno sguardo pieno di speranza, usando un italiano crudissimo che è diventato quasi la sua lingua madre;
- Anche i libri della serie Manifesto incerto (L’orma Editore) di Frédéric Pajak ci mostrano la capitale francese dal punto di vista assai eccentrico di un grande irregolare che ha fatto mille mestieri, compreso quello di clochard nei boulevards parigini. Un’impresa costellata di grandi personaggi dell’arte, della filosofia e della letteratura degli ultimi due secoli, che lo ha reso un caso letterario tradotto in dieci paesi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il fruscio degli altri al Piccolo Museo del Diario di Pieve Santo Stefano
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Essendo Toscana e con tanti anni sulle spalle questo articolo mi ha interessato molto. Penso che andrò a visitare questo museo dei diari. Grazie