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Dal titolo sembrerebbe una poesia sulla vecchiaia, ma non è propriamente così. Mio povero vecchio di Cesare Pavese, contenuta nella raccolta giovanile Rinascita (1925-1926), è una lirica che tratta la condizione dell’uomo moderno. Una poesia scritta quasi in forma di prosa o di racconto breve che tende ad analizzare l’esistenza colta nel suo aspetto meno visibile e segreto.
Il “povero vecchio” di Pavese è un senzatetto che vive all’addiaccio tra gli stenti, ma è anche il poeta stesso che vede riflessa nell’esistenza misera dell’uomo la propria disillusione e il proprio disincanto.
Entrambi, conclude il poeta nel finale che chiude il parallelismo, hanno “nel cuore la stessa stanchezza” nei confronti di una vita che non muta e condanna gli uomini a una condizione di dolore e a un destino ineludibile di morte.
“Mio povero vecchio”, il singolare scritto giovanile di Pavese
Il testo di questa poesia fu scritto e composto da un giovanissimo Cesare Pavese, appena diciottenne, all’epoca ancora studente al liceo classico Carlo D’Azeglio di Torino. Lo slancio creativo di Pavese studente liceale era infatti ancora teso verso la produzione poetica, nella quale tuttavia già possiamo indovinare il carattere e lo stile della prosa del futuro scrittore de La luna e i falò e i Dialoghi con Leucò. Solo più avanti Pavese si sarebbe dedicato alle prime bozze di un romanzo, intitolato Romanzo della gioventù e in seguito Lotte di giovani, mai portato a compimento. In quelle prime bozze di romanzo apparivano personaggi simbolici, quali L’utopista e L’indeciso o Il Pittore. Anche il “Povero vecchio” protagonista della poesia pavesiana è un personaggio simbolico, quasi un’allegoria incarnata, una caricatura. Ogni personaggio era una sagoma nella quale Pavese nascondeva sé stesso e la propria futura scrittura di stampo autobiografico in cui sarebbe stato lui a rivestire la veste dell’autore-eroe.
La raccolta Rinascita (1926-1927), nella quale è contenuta la poesia che analizzeremo, è successiva a Sfoghi (1924), prima raccolta poetica pavesiana, in cui già emerge il conflitto tra la volontà di costruire e il desiderio di autoannullamento. Nelle poesie giovanili di Rinascita emerge, per la prima volta, il tema della morte e il pensiero del suicidio. In Mio povero vecchio, scritta nel dicembre del 1927, il senso di impotenza di Pavese lo conduce a immedesimarsi in una figura derelitta, spinta ai margini della società. Ciò che affascinava il giovane poeta era la condizione di chi si sottraeva volontariamente al commercio del mondo, come i vagabondi o i “poveri suicidi”.
Mio povero vecchio è una poesia esistenziale perché, nel finale, il vecchio riflesso nello specchio è il volto giovane del poeta e siamo, anche, tutti noi.
Vediamone più approfonditamente testo e analisi.
“Mio povero vecchio” di Cesare Pavese: testo e analisi della poesia
Mio povero vecchio
che in questa notte nebbiosa d’inverno,
sotto il freddo atroce,
dormi sotto il portico della grande piazza,
disteso sulla grata
di una cantina,
che ti regala un po’ di caldo, e sei tutto lungo, attrappito
La prima strofa è dedicata all’analisi della condizione del vecchio, descritto come un vagabondo che vive all’aria aperta, tra gli stenti, costretto a tollerare la nebbia e il gelo e a riscaldarsi col fiato. Pavese, come nella descrizione di un racconto, si dedica a un allestimento accurato della scena nel quale inserisce il suo protagonista. Troviamo nel testo una sovrabbondanza di aggettivi, la prosa poetica non è asciugata né scarna come è tipico delle raccolte giovanili pavesiane, tra le quali si colloca Rinascita.
nella coperta sudicia dei tuoi cenci e della tua gran barba
come un nero cadavere informe,
e sogni avidamente sotto gli spruzzi di neve fangosa
uno di quei cibi meravigliosi
che hai veduto stasera nella vetrina splendente
mio povero vecchio,
che non hai nulla al mondo,
se non quel sogno tiepido e un odio disperato,
io mi struggo di essere come te,
io che vengo da tanto più lontano,
ma che ho nel cuore il tuo odio
e sogno i tuoi stessi sogni.
Nella seconda strofa la descrizione passa dal concreto all’astratto: dopo aver descritto la fisicità del vecchio e la sua condizione, ecco che passa ad analizzarne i pensieri e i sogni. Infine si verifica l’identificazione inattesa tra il poeta e il vecchio “io mi struggo di essere come te” che non avviene da un punto di vista esteriore, ma interiore: i due sono accomunati dagli stessi “sogni” e dallo stesso “odio”, quindi da una trama di vita onirica e puramente passionale. Il giovane Pavese aspirava alla gloria e sapeva bene di essere condannato a una vita di lotta, a scrivere e riscrivere, “fare e rifare”, in maniera continua e tumultuosa poiché, come annota nei suoi primi scritti, lui sentiva in sé quell’ardore.
Verrà una notte, forse domani,
che m’accascerò come te
sotto la nebbia in una via deserta,
colla tempia spaccata,
e sognerò l’ultima volta in quell’istante
un cibo meraviglioso
che anch’io ho veduto in una vetrina splendente,
un cibo che tu non capiresti,
perché io vengo da troppo più lontano,
un cibo indicibile di sogni
deliranti, sognati sopra un volto
e un corpo, pieni d’anima e di luce.
L’atmosfera in cui la poesia ci immerge si fa via più astratta e metaforica, dall’immagine esteriore a quella mentale. Il “cibo meraviglioso” cui Pavese allude è una sorta di ambrosia, l’ideale nettare degli Dèi, ovvero la ricerca del trascendente, del divino, del Sacro, nell’esperienza umana. Il poeta e il “povero vecchio” sono accomunati dallo stesso struggente desiderio di impossibile, dall’identica necessità di sognare.
Un gran cielo di sogni
inaccessibile alla realtà,
fatto di colori struggenti
pallidi tiepidi, rapimenti di tenerezza,
rotto da urli di arte e di passione
e da voci sommesse
come le cose più segrete,
un mondo che sia tutta l’esistenza
di quel suo corpo e quei suoi grandi occhi nudi.
Cadere nella nebbia e dentro il fango
colla tempia spaccata,
o mio povero ignoto mendicante,
come sei disteso tu ora,
e sognare il mio sogno.
Il sogno cui fa riferimento Pavese è il sogno dell’umano, ovvero la vocazione al desiderio che accomuna tutti gli uomini, nessuno escluso, lungo il cammino della vita che presuppone anche un’inesausta ricerca della felicità. La felicità è il sogno irraggiungibile, ovvero il vertice di tutti i sogni; ciò cui tende tutta l’umanità in un movimento quasi inconscio e assoluto. Lo desidera il poeta, così come il povero vecchio disteso nel gelo che vorrebbe semplicemente soddisfare i suoi bisogni primari. come la fame, la sete, essere riscaldato e protetto. Anche Pavese, nel profondo, si sente come il “povero vecchio” caduto nel fango perché ha già assistito alla frantumazione dei suoi ideali, ha sperimentato lo stesso atroce disincanto. L’intero vasto segreto dell’esistenza è racchiuso, in fondo, nel corpo provato dell’uomo, nei suoi occhi nudi che riflettono il cielo.
Nel parallelismo proposto da Pavese si avverte, con uno smarrimento che quasi sgomenta, che ogni uomo è nel cuore un vagabondo che ha perduto la strada di casa e ricerca un segno, un’indicazione, un conforto che gli mostri la verità a proposito del suo destino.
Perché noi abbiamo in cuore
la stessa stanchezza
e lo stesso odio disperato
contro la vita che non può mutare
e lascia me nell’orrore del buio
e te nel morso gelido e digiuno.
Perché solo nel sogno e nella morte,
o mio povero vecchio,
noi possiamo trovare noi stessi.
Nell’ultima strofa il confronto tra Cesare Pavese e il senzatetto si conclude con un parallelismo che culmina nell’identificazione. Entrambi hanno nel cuore la stessa stanchezza e la stessa fame; sebbene quella del povero vecchio, nell’impellenza della necessità, sia fame di “cibo vero”, mentre quella di Pavese è fame e desiderio di assoluto. L’effetto della chiusa è sconcertante e, al tempo stesso, commovente: nel volto affaticato del povero vecchio si riflette quello dello stesso Pavese e dell’umanità intera, poiché tutti gli uomini sono accomunati da due verità supreme: il sogno e la morte, una sorta di visione moderna delle due pulsioni vitali greche, Eros e Thanatos, i due impulsi che dominano l’uomo.
La poesia di Pavese si conclude in maniera inattesa con il “noi”, prima persona plurale, sembra così infrangere uno specchio mostrare una coincidenza talmente corrispondente da sgomentarci. Siamo tutti il povero vecchio, sottoposti al freddo e al bisogno, all’urgenza della necessità e alla schiavitù del desiderio; siamo tutti quanti “vagabondi” della vita in cerca della nostra meta attraverso la realizzazione personale. Non c’è umanità senza dolore: la conoscenza del dolore fa parte dell’umano, ne è totalmente connaturata.
L’immagine del “povero vecchio” è ciò che noi saremo un giorno - anziani bisognosi di cure - ma riflette anche l’immagine di ciò che noi già siamo, ovvero uomini che sognano e conservano nel cuore trame di amore, odio, coraggio e rimpianto.
Significativo, a questo proposito, notare come a scrivere i versi di Povero vecchio sia stato un giovane Cesare Pavese. La raccolta Rinascita comprendeva i versi scritti da un Pavese neanche ventenne, tra il 1926 e il 1927, sarebbe infine confluita nella celebre antologia poetica pavesiana Lavorare stanca edita dalla fiorentina Solaria nel 1936.
Pavese aveva già maturato l’idea, espressa anche in Povero vecchio, che l’anima umana inalterata nel tempo risponda in maniera sempre uguale alle peripezie della vita. Lo specchio che Cesare Pavese ci pone dinnanzi è la nostra anima e ci costringe a indagare le cause del suo malessere.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Mio povero vecchio”: la poesia giovanile di Cesare Pavese sulla vecchiaia
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