Magnifico e tremendo stava l’amore
- Autore: Maria Grazia Calandrone
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: Einaudi
- Anno di pubblicazione: 2024
Sapete qual è la cosa più importante che ci insegna la letteratura? La “sospensione del giudizio”, a mio avviso: quando si inizia a leggere una storia ci si immerge nel mondo che il narratore ha creato, si stipula un patto inconscio, si sceglie di affidarsi ciecamente alle parole altrui.
Oggi siamo talmente immersi in una società giudicante che la letteratura diventa un costante esercizio di empatia, ci costringe a liberarci dai nostri rigidi schemi mentali, soprattutto quando leggiamo libri del genere. Magnifico e tremendo stava l’amore (Einaudi, 2024) contiene un apparente ossimoro già nel titolo, volutamente disorientante nel suo contrasto; è un libro che ci propone la cronaca nera analizzata attraverso il metodo della poesia.
La narrazione si scompone ibridandosi tra romanzo, poesia, saggistica, allentando i confini tra il vero e il verosimile, tra prosa e verso, imbrigliandoci nella sua rete di simboli che celano significati plurimi. Non ci sono vittime né carnefici in questa storia, divenuta un caso esemplare della giurisprudenza italiana: un omicidio che si conclude con l’assoluzione dell’imputata per “legittima difesa”.
Luciana ha ucciso suo marito Domenico, ma per la giustizia è innocente, in quanto la donna è reduce da anni di maltrattamenti e abusi: vale la regola “vita per vita” nell’umano disordine cui la giurisprudenza tenta di dare un ordine o, se non altro, un’armonia.
La storia di questi amanti, vittime e carnefici l’uno dell’altra, si legge d’un fiato, senza prendere respiro, come durante un’immersione; e alla fine non resta che una non meglio precisata sensazione di pietà per queste due povere vite in cui si agitano il Bene e il Male senza tregua, rabbia e pentimento, accusa e perdono, “ciascuno in sé magnifico e tremendo” nel proprio bisogno d’amore affamato e violento.
In queste pagine si dipana un’autentica fenomenologia dell’amore, un’analisi scientifica – a tratti spietata – delle sue cause e dei suoi effetti che, infine, implode come una stella espandendosi in una nuova galassia di poesia. A essere posto sotto la lente di ingrandimento della scrittura è, in particolare, il rapporto di potere che si instaura all’interno della coppia: ciò che porta l’uomo alla violenza e cosa conduce la donna a subirla, almeno sino a che non si invertono, inaspettatamente, i ruoli.
Questa storia finisce e ricomincia molte volte, come tutte le storie di violenza.
Al centro il personale che diventa politico, Maria Grazia Calandrone ha l’intuito di calare la vicenda nel clima storico-culturale di un’epoca che l’ha sotterraneamente alimentata: il caso Cristallo così si riduce ai minimi termini nelle persone di Luciana e di Domenico; una donna, un uomo, nel loro amore sbocciato d’estate all’inizio degli anni Ottanta, alimentato da una passione incendiaria sullo sfondo delle note di Amedeo Minghi “E i nostri giorni di primavera/che profumano dei tuoi capelli”, evoluto pericolosamente negli anni Novanta con l’ascesa del berlusconismo sulle rovine della Democrazia cristiana determinate dallo scandalo di Tangentopoli, tra scelte che determinano e dividono destini; infine terminato tragicamente nel sangue negli anni Duemila, ma forse mai davvero estinto. Sullo sfondo la topografia urbanistica di Roma, con le sue divisioni tra centro e periferia, geografie che determinano status sociali e dinamiche familiari.
Dietro l’amore di Luciana e Domenico si muove un’intera Nazione e anche una storia collettiva: loro due sono gli attori inconsapevoli e tormentati di un dramma che si ripete, moltiplicato, in innumerevoli vite. Maria Grazia Calandrone tenta una chiave di lettura della complessa grammatica dell’amore, cercando di individuare il discrimine in cui il desiderio dell’altro evolve oscuramente in volontà di possesso e quindi in violenza. Eros e Thánatos, Amore e Morte, sono due pulsioni primordiali che in questo libro si legano così strettamente da apparire complementari, inscindibili.
Questa storia è cominciata prima di cominciare, nell’oscuro viluppo del tempo, dove la vita scivola nel suo contrario come la cera di una candela. Come tutte le grandi storie d’amore.
L’autrice si fa etnografa: ci sono intere pagine dedicate alla messa a nudo della scrittura, Maria Grazia Calandrone non si limita a raccontare una storia dotata di un inizio e di una fine, ricostruisce il respiro di un’epoca, inserisce gli eventi nella loro perfetta cornice cronologica e ne narra le conseguenze sociali e culturali in un rapporto analitico di causa-effetto.
Anche la violenza, nella prosa poetica di Calandrone, imita i movimenti dell’amore in un’ambivalenza che annichilisce; infine Luciana uccide Domenico abbracciandolo stretto. La lotta finale non prevedeva salvezza: o lei o lui, senza scampo. Lei lo uccide per non morire strangolata dalle sue mani. Lo pugnala di riflesso con il coltellino a serramanico che era di sua madre, Santa Marinaro, la donna che ha dato a Domenico la vita amandolo sopra ogni altra cosa al mondo. Con quel coltellino Santina potava i fiori sulla tomba del marito; lo teneva in borsetta pronto all’uso per i suoi pellegrinaggi al cimitero. Proprio da quel coltellino innocuo che era di sua madre, con la lama più corta di dieci centimetri, Domenico rimane ucciso. Anche l’arma del delitto, nel romanzo di Calandrone, diventa metafora e commuove con la forza della poesia. Luciana lo uccide per istinto di vivere e, nel silenzio devastante che segue lo scontro, si fissa le mani senza capire, come se appartenessero a un’altra donna, una donna che non è lei.
“Perché tante donne non denunciano i loro aggressori?”
Le domanda una giornalista, Claudia Daconto, dopo l’assoluzione. Luciana Cristallo risponde:
“Perché dovrebbero odiare i loro uomini che in parte, però, amano anche”.
Il nodo è tutto qui e stringe alla gola, perché dopotutto Luciana lo chiama ancora “amore”. Magnifico e tremendo stava l’amore, appunto; capace di creare e di distruggere, l’eterno oscuro mistero che governa il mondo. La legge contro lo stalking che avrebbe potuto salvare Luciana e Domenico, condurre forse la loro storia a un epilogo diverso, sarebbe arrivata pochi anni dopo il caso Cristallo.
Questa materia impalpabile, infuocata, di sentimenti magmatici ed esplosivi non poteva essere narrata dal lessico della giurisprudenza e neppure dalle analisi asettiche della scienza, ci voleva la Letteratura per raccontare questa storia concedendo quel supremo incantamento, quel sortilegio benefico che è la “sospensione del giudizio”. Luciana Cristallo si è salvata, pensiamo alla fine, ma il nostro sospiro di sollievo si interrompe al pensiero della morte di Domenico, al dolore dei figli, al sangue in cui è precipitato un amore.
È un lieto fine mancato, il vero lieto fine era posto al principio di questa storia quando veniva descritta la passione nata in un’estate rovente tra due giovani in riva al mare, poi divenuta un incubo senza fine.
Non ci sono vittime né carnefici, ma solo una sensazione di angoscia inoppugnabile che ci assale. A volte i confini sono davvero difficili da distinguere, scrutare nel cuore dell’umano è come cercare di districare un groviglio e i sentimenti non sono mai chiari né governabili. Maria Grazia Calandrone cerca di decifrare il Male attraverso la forza della poesia, forse l’unica voce capace di governare il caos, di fare luce nel buio e così trasformare un’esplosione in uno sfolgorio di stelle.
Oggi la violenza sulle donne ha un nome e può essere raccontata, ha diritto di uscire dai soprusi muti consumati nel chiuso delle pareti domestiche; ma non è sufficiente dare un nome alle cose per comprenderle, questo libro lo spiega bene, mostrandoci le dinamiche di una relazione tossica e le ragioni per le quali una donna vi si ritrova incastrata. Non basta denunciare, bisogna educare; in primo luogo educare gli uomini a individuare quali sono i traumi inconsci e le ragioni che scatenano i comportamenti violenti. Domenico dopo aver picchiato a sangue Luciana piange, si scusa, supplica; appare sopraffatto dalla propria violenza sulfurea, disumana. Lei, che dopotutto lo ama, lo perdona, perché conosce il bambino che è stato, sa il disamore che ha sopportato nell’infanzia.
Maria Grazia Calandrone sta bene attenta a non trasformare Domenico Bruno nel classico prototipo stereotipato del “Mostro”, ma a raccontarlo come uomo, tuttavia un uomo rimasto bambino che pretendeva dalla moglie l’amore accudente e totalizzante di una madre che gli era sempre stato negato e, forse, anche il diritto di essere finalmente “figlio”. La morale di questa storia si fa labile, sbiadisce, appartiene più alla necessità intellettiva di chi legge che alla volontà di chi scrive.
La violenza è spesso il volto “tremendo” dell’amore; ma non può mai essere perdonata in nome dell’amore.
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