Ci sono libri che sono puri atti d’amore. Il primo romanzo della poetessa e scrittrice Maria Grazia Calandrone, Splendi come vita (Ponte alle Grazie, 2021), candidato al Premio Strega 2021, iniziava con queste parole folgoranti, che l’autrice afferma le siano venute in sogno:
Sono figlia di Lucia, bruna Mamma biologica, suicida nelle acque del Tevere quando io avevo otto mesi e lei appariva da ventinove anni nel teatro umano.
Sono figlia di Consolazione, bionda Madre elettiva, da me fragorosamente delusa.
Un breve paragrafo che riassume la vita di due donne estremamente diverse ma dotate della stessa tempra, Lucia e Consolazione, e contiene per inciso una terza vita, quella di Maria Grazia Calandrone, che attraverso queste frasi firma il proprio poetico “atto di nascita”.
Maria Grazia era proprio quella bambina, abbandonata a otto mesi all’ingresso monumentale di Villa Borghese, che appare in alcune fotografie sgranate affiancate agli eclatanti titoli di giornale del 1965 che recitavano in maniera impietosa: “La madre la lasciò e poi si uccise” e, in seguito, festeggiavano la sua adozione presso la famiglia composta dai coniugi Calandrone, Consolazione e Giacomo.
Alll’insensibilità di certi giornalisti che all’epoca raccontarono la sua storia con crudezza e becero realismo, Maria Grazia Calandrone ha opposto la poesia e la sua storia l’ha raccontata lei stessa, molti anni dopo, riuscendo a trovare le parole per esprimere l’amore, il perdono e la salvezza.
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Nasce così Splendi come vita (Ponte alle Grazie, 2021), il ritratto in chiaroscuro, denso di lirismo, di Consolazione, l’elettiva Madre bionda, cui ha fatto seguito, nell’ottobre 2022, Dove non mi hai portata (Einaudi, 2022), un “reportage lirico” che combina inchiesta, narrazione storica e biografia ricostruendo la vita di Lucia, la bruna Mamma biologica, che Maria Grazia non ha mai conosciuto ma ha sempre amato con la fiducia naturale e la dedizione totale di una figlia. In quest’ultimo libro si racconta una storia struggente e apparentemente senza redenzione: il gesto estremo della giovane Lucia, cui nel primo romanzo erano dedicate solo poche righe, qui viene affrontato e spiegato ricomponendo la lucida narrazione dei fatti e degli eventi che hanno condotto al tragico epilogo.
I due romanzi di Maria Grazia Calandrone si ricompongono come i pezzi di un unico puzzle e ci restituiscono la memoria di due vite - a ben vedere, di tante vite - e il racconto corale di un Paese - l’Italia - in evoluzione, dalle sbiadite fotografie in bianco e nero alle immagini a colori, che in questa corsa sfrenata verso il futuro non è tuttavia capace di allargare i propri orizzonti. Ogni parola nasce come una gemma di puro amore, ed è un atto di perdono e di salvezza, il tentativo di una figlia di “mettere al mondo” la donna che le ha dato la vita. Attraverso la scrittura di Dove non mi hai portata si compie un miracolo che racchiude, per dirla con i geniali versi di Dante, l’amore immortale dei mortali.
Ne abbiamo parlato con l’autrice, Maria Grazia Calandrone, in questa intervista.
- Quando ha capito che era giunto il momento di mettere per iscritto la storia della sua nascita? Ci sono storie che ci portiamo dietro come un marchio per tutta la vita e credo che non sia mai facile esporle allo sguardo altrui.
Non è mai facile infatti, forse perché non si vuole elemosinare la compassione altrui. Ma credo che, a un certo punto, ognuno sia chiamato a fare i conti con la propria storia. Mi ha aiutato il confinamento dettato dal Coronavirus. Quei giorni anomali che ci costringevano chiusi in casa senza altro dovere che pensare, credo che abbiamo indotto molte persone a riflettere a fondo sulle loro vite. È stato in quel momento che ho capito che dovevo scrivere di Consolazione, la mia madre adottiva, questa donna bellissima che per me era semplicemente “mamma”. Le parole poi sono venute da sé, era come se in un certo senso me le portassi dentro da anni. Il primo romanzo Splendi come vita ha avuto infatti una stesura velocissima, l’ho scritto in due settimane. L’incipit mi è stato suggerito in sogno: queste due madri, la bruna Lucia e la bionda Consolazione, in un rapporto quasi antitetico. Era necessario che scrivessi di Consolazione prima, per poi avvicinarmi alla storia di Lucia.
- È come se entrambi i libri componessero i due pezzi di un unico puzzle. Si completano anche negli eserghi e alla fine ricompongono l’esistenza di due donne incredibili, molto diverse tra loro, ciascuna unica a proprio modo. Ma compongono anche la sua storia. Cosa l’ha spinta a scrivere di Lucia, sua madre biologica?
Non volevo scrivere di Lucia all’inizio, non avevo mai considerato questa possibilità. È stato il primo romanzo, Splendi come vita, a generare il secondo, Dove non mi hai portata. Quel libro ha iniziato ad accendere i riflettori sulla mia storia. Ne ho parlato in una trasmissione televisiva e questo ha attirato l’attenzione di quanti l’avevano conosciuta o avevano anche solo sentito di lei. Ho iniziato a essere sommersa da lettere, mail, testimonianze, richieste di raccontare. Ho capito che dovevo parlarne. Pian piano questa figura di donna ha iniziato a emergere dall’oblio, ha assunto un volto, dei ricordi. Sono riuscita a ricomporre la memoria di mia madre.
- Deve essere stato pesante, non solo il lavoro di ricerca intendo, ma anche reggere l’impatto emotivo. Quale dei due romanzi è stato più difficile scrivere?
Entrambi. Infatti ora mi sento molto stanca, credo di aver fatto quello che dovevo, ma l’impatto a livello psicologico è molto forte. Mentre scrivevo Dove non mi hai portata ero letteralmente ossessionata dalla storia di mia madre, la vedevo ovunque. Ci pensavo in continuazione, ovunque fossi, persino mentre camminavo in Piazza di Spagna con mia figlia per gli acquisti di Natale. Credo che la cosa più difficile sia stata la “caduta emotiva”, affrontare la caduta emotiva. Scrivere questi libri ha significato riportare in vita tante esistenze, tutte figure per me gigantesche: Consolazione e Lucia, ma anche Giacomo Calandrone, Giuseppe, Luigi e tanti altri.
- Come sono iniziate le ricerche sulla vita di Lucia? Qual è stato il principio del lavoro di indagine che ha poi condotto alla scrittura di questo romanzo che lei definisce un “reportage lirico” ed è anche, in parte, un lavoro d’inchiesta?
Dopo la trasmissione televisiva ho capito che dovevo scrivere questa storia. Le ricerche sono iniziate dal Paese di origine di Lucia, dove ho trovato tanti testimoni disposti a raccontarmi di lei. Mi ci sono recata ad agosto, dopo la fine delle restrinzioni per il Covid. È stato in quel momento che ho visto la casa di campagna dove Lucia aveva vissuto con il marito Luigi: quella visione mi ha scioccata.
Le ricerche poi sono proseguite quando ho richiesto il mio atto di nascita. È stato attraverso queste indagini che ho scoperto ciò che non avrei mai voluto scoprire: cioè che fui strappata, appena nata, dalle braccia di madre in quanto figlia illegittima. Mi mandarono in un brefotrofio, l’istituto dove si allevano i neonati illegittimi o abbandonati, e mi ci lasciarono per un mese e mezzo. Ma lei fece di tutto per riprendermi. Un ruolo chiave nell’indagine l’ha avuto proprio l’archivista che mi ha consegnato il documento del mio ricovero presso il brefotrofio di Milano IPPAI. Con esso ho ricevuto anche la terribile lettera in cui il marito di Lucia, Luigi, si rifiutava di riconoscermi in quanto figlia di un adulterio. In quel momento ho capito tutto, ho capito il destino di mia madre, quanto si sentisse soffocata, senza scampo.
- Consolazione e Lucia, le sue due madri, sono due donne molto diverse e per certi versi antitetiche come si evince dall’incipit perfetto di Splendi come vita che trova la sua continuazione in Dove non mi hai portata. Eppure entrambe vivono in lei: che cosa le hanno lasciato?
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Non avrebbero potuto essere più distanti, è difficile coniugare le due personalità, almeno guardandole dall’esterno. Lucia era una contadina ignorante che proveniva da un piccolo paesino, mentre Consolazione era una professoressa, un’intellettuale borghese, moglie di un deputato. Qualcosa però le accomunava: avevano entrambe un temperamento esorbitante, che spero di essere riuscita a trasfondere nelle pagine. Erano donne libere, che non si lasciavano sottomettere facilmente, che non si rassegnavano. Questa è una caratteristica che credo di avere ereditato.
- Anche gli uomini hanno una parte considerevole in questa vicenda, sebbene rivestano un ruolo minore. Colpisce innanzitutto la figura di Tonino, il fidanzato di gioventù di Lucia, che per tutta la vita conserva intatto il suo ricordo, la memoria del suo primo amore, il suo amore puro.
Ho conosciuto di persona Tonino, che oggi ha ottantasei anni, e siamo diventati amici. Mi ha colpito la sua estrema dedizione alla memoria di mia madre: ancora oggi lui non si vergogna a dire, neppure di fronte ai suoi figli, che lei è stata il grande amore della sua vita. Una storia d’amore commovente, capace di andare davvero oltre la morte. Tonino mi ha accolto come una persona di famiglia e ha preso subito a cuore mia figlia Anna, che oggi ha tredici anni e somiglia moltissimo a Lucia così com’era quando lui l’ha conosciuta.
- C’è poi il marito di Lucia, Luigi detto “Gigi Centolire”, che è un personaggio altrettanto complesso. È l’uomo che lei è costretta a sposare. Entrambi si trovano così stretti nella prigione di un matrimonio combinato. Alla fine della storia Luigi viene dipinto dai paesani come un “Mostro”, è ritenuto il responsabile della morte di lei. In realtà, a chi legge, Luigi sembra più un emarginato. Anche lui può essere definito, a suo modo e nonostante la sua cattiveria, una vittima.
Luigi ha scritto parole durissime contro mia madre, Lucia. Quando ho letto la lettera avvelenata che aveva scritto per disconoscermi come figlia, ho capito perché Lucia si è uccisa. Era un atto d’accusa, una condanna implacabile. Però è vero, alla fine anche Luigi è una vittima. Probabilmente era omosessuale e non ha mai potuto vivere la vita che desiderava. Di lui emerge un ritratto carico di amarezza, un uomo reso cattivo dalle circostanze. Forse, se proprio deve essere individuato un colpevole, questa è la società italiana degli anni Sessanta e i suoi pregiudizi.
- È più indefinita l’immagine di Giuseppe, suo padre biologico. Una figura evanescente, che appare sempre in chiaroscuro. Che opinione si è fatta di lui?
Per lungo tempo ho coltivato il dubbio che Giuseppe potesse avere ucciso mia madre. In Paese c’era chi mormorava fosse lui l’assassino di Lucia. Attraverso il mio lavoro di indagine improvvisata sono riuscita a smentire questa ipotesi, i lettori di Dove non mi hai portata scopriranno come. L’idea che mi sono fatta di Giuseppe è che fosse un uomo che aveva vissuto un grave trauma, quello della guerra. I testimoni concordano nel dire che dopo la guerra d’Africa non era più stato lo stesso. Ma era anche un uomo solido, tenace, e credo fosse davvero innamorato di Lucia se arrivò al punto di fuggire con lei lasciando la propria famiglia. È stato sempre lui l’esecutore materiale della lettera all’Unità, firmata poi da Lucia. L’ha aiutata fino all’ultimo, rimanendo sempre nell’ombra. Poi sono morti insieme, o almeno secondo la mia ricostruzione così sono andate le cose. La parte finale del libro serve proprio a scagionare Giuseppe da ogni accusa. Il corpo - che riteniamo sia suo - fu ritrovato con tre cravatte in tasca: un fatto anomalo, che rappresenta l’identikit di un uomo in fuga, che vive fuori casa e non ha bagagli con sé.
- Nell’analizzare i vari personaggi di questa storia, che poi sono persone reali, non possiamo trascurare Giacomo Calandrone, suo padre adottivo. Nel finale del libro lei lo definisce un Gigante, dice che era un uomo “limpido”. Che ricordo ha di lui?
Giacomo Calandrone è il mio modello esistenziale. Era un uomo serio, non un sentimentale. Intelligente, ostinato. È diventato scrittore per suo merito, un uomo che si è fatto da sé. Mi ricordo sempre che leggeva e che scriveva, di lui conservo questa immagine fissa. E ora, proprio come lui, io leggo e scrivo. Il sogno di Lucia e Giuseppe di darmi un futuro migliore, libero, indipendente si è avverato.
- A questo proposito è utile ricordare le parole della lettera che i suoi genitori, Lucia e Giuseppe, hanno scritto al giornale L’Unità per conferirle un’identità e un nome. In un capitolo di Dove non mi hai portata lei analizza ogni parola di questa lettera, che appare come un messaggio in codice per il suo futuro. È curioso che Lucia, una donna di origine contadina, avesse scelto proprio le parole per assicurarle una vita migliore: sono sempre le parole a unire, come un ponte, passato e futuro. Sembra che anche in sua madre ci sia una sorta di vocazione poetica.
Sapevano che un giorno avrei letto quelle parole. In un certo senso, credo, che mi fossero destinate. E ora indosso le parole di Lucia “alla compassione di tutti” come un diadema. In quella lettera non c’era una sola virgola lasciata al caso, era architettata perfettamente anche nell’uso dei tempi verbali. L’unico verbo al presente era quello che introduceva il mio nome “si chiama Maria Grazia” e poi c’è un tempo verbale al futuro “pagheremo con la vita”. Ciò che colpisce di quella lettera è che non vi alcun lamento né tentativo di suscitare la pena altrui. Lucia e Giuseppe si autocondannano con gli occhi della società che li giudica. Però, nel finale, c’è anche uno spiraglio: “pagheremo con la vita ciò che abbiamo fatto, o indovinato o sbagliato”. C’è anche quella possibilità tutta racchiusa in “indovinato” che sembra smentire ogni accusa.
- Dove non mi hai portata è anche un “romanzo politico”. Si parla degli avvenimenti e della cultura dell’Italia degli anni Sessanta, si fotografa passo passo una società in evoluzione. Sono proprio gli accadimenti, infine, a plasmare il destino dei protagonisti. C’era una legge sull’infedeltà coniugale che condannava l’adulterio femminile e non quello maschile. In un’epoca diversa Lucia si sarebbe salvata?
Rispondere a questa domanda è impossibile per come sono andate le cose. All’epoca non esisteva il divorzio, e la legge sull’infedeltà coniugale penalizzava le donne. In Cassazione fu poi confermata questa disparità. La donna non poteva tradire perché era considerata il collante della famiglia; l’uomo invece poteva permettersi qualche scappatella a patto che non se ne andasse di casa. Non c’era una legge che la tutelasse e Lucia è dovuta scappare, ha dovuto nascondersi. Vorrei aggiungere che nessuno in Paese le ha dato aiuto, nessuno l’ha difesa. Lei ha cercato di conquistarsi la sua libertà, a dispetto della legge e del pregiudizio. È stata libera anche nella morte.
- Nella conclusione del libro è lei a generare sua madre, ridona vita a Lucia Galante, questa donna straordinaria e coraggiosa che non l’ha portata con sé nella morte ma l’ha consegnata alla vita. La parola conclusiva di Dove non mi hai portata è proprio: “figlia mia”. Un atto di nascita, in realtà di rinascita, come se la scrittura fosse una possibilità di redenzione e di salvezza.
Non so se la scrittura sia una possibilità di salvezza. Lucia è morta a ventinove anni, e le pagine di carta non potranno mai davvero restituirle la vita. Tramite questo libro però sono riuscita a ricostruire il ricordo di mia madre. Lucia è diventata il mio faro, la mia fiducia, in lei è riposto tutto il mio amore. Con commozione penso a questa ragazza che era credente, e non è stata neppure sepolta in Chiesa, che è stata lasciata fuori dalle porte del Paese. Quel “figlia mia” è anche un atto di pietà, un tentativo di restituirle attraverso le parole - che sono poi tutto ciò di cui dispongo - la vita.
Ora Lucia rivive nella memoria e la memoria, a ben vedere, è l’unica forma di sopravvivenza possibile.
- Una domanda richiesta dalla nostra collaboratrice Marzia Perini: cosa l’appassiona tanto della poesia giapponese? Quali differenze riscontra tra la poesia giapponese e la poesia italiana-occidentale?
Della poesia giapponese amo il non detto, l’evocato. Mi piacciono i costruttori di haiku, il fatto che la poesia rappresenti l’essenza stessa della realtà. Nella poesia giapponese lo scritto non dice quasi mai il sentimento di chi scrive. È un lirismo ridotto all’osso. Devo dire che purtroppo non mi sembra molto frequentata in Italia, i nostri poeti sono più letterari come da tradizione.
- La sua scrittura risente tanto della sua attività poetica, è una prosa lirica, un romanzo in versi. A un certo punto di Dove non mi hai portata definisce il libro che sta scrivendo come un “reportage lirico, poetico, ma non melenso”. La sua prosa procede per folgorazioni, per illuminazioni ed è una narrazione nuova nel panorama attuale.
Con i versi che vanno a capo mi sento a casa. Ho bisogno della musica che è propria della poesia, devo sentire il ritmo anche nella prosa. Credo sia questo il motivo alla base di questo mio stile così inconsueto.
- Questo stile poetico è molto efficace, a mio parere, perché riesce a restituire ai lettori l’impatto emotivo della storia. Quando si conclude la lettura di Dove non mi hai portata si è sopraffatti dall’emozione. Ogni riga è così vera, così sincera da suscitare una commozione fortissima. Come è possibile mettersi così a nudo attraverso la scrittura?
Credo che l’unico modo per scrivere in maniera autentica sia non dare troppa importanza a sé stessi e, soprattutto, fregarsene di ciò che pensano gli altri.
Ciò che mi spinge a scrivere, da sempre, è il desiderio di servire. Penso che le cose che scrivo, poesie o romanzi, debbano servire a qualcuno, essere utili agli altri. Quando ho pubblicato Splendi come vita in molti mi hanno scritto ringraziandomi per aver dedicato un libro al tema dell’adozione. Pensi che io non mi ero neppure accorta che fosse quello il “tema” del romanzo, ma è stata la dimostrazione che la scrittura può davvero “servire gli altri” e quindi trovare nei lettori una potente cassa di risonanza.
Recensione del libro
Dove non mi hai portata. Mia madre, un caso di cronaca
di Maria Grazia Calandrone
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Intervista a Maria Grazia Calandrone, in libreria con “Dove non mi hai portata”
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