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Recensioni di libri

La lenta crescita del prezzemolo. La donna che divenne strega di Anita Bono Lisa

Pathos Edizioni, 2020 - Una novella moderna, ambientata nell’Oriente da cui sono arrivate le Mille e una notte, che nella storia di una ragazzina sola e poi donna coraggiosa non sembra affatto un mondo da favola.

Felice Laudadio
Felice Laudadio Pubblicato il 19-11-2021
La lenta crescita del prezzemolo. La donna che divenne strega

La lenta crescita del prezzemolo. La donna che divenne strega

  • Autore: Anita Bono Lisa
  • Genere: Fantasy
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Anno di pubblicazione: 2020

Una novella moderna, ambientata nell’Oriente da cui sono arrivate le fiabe delle Mille e una notte, ma in questa storia di una ragazzina sola e poi donna coraggiosa, non sembra affatto un mondo da favola. È una società arcaica, ipocrita e spietata con i più deboli, quella afgana, in un territorio dell’Asia centrale, etnicamente disunito ed eticamente arretrato quasi duecento anni fa, tornato di pressante attualità. Perché comincia nel 1835 la vicenda narrata da una scrittrice esordiente con franchezza, in modo asciutto ma non per questo meno consapevole e partecipato. La lenta crescita del prezzemolo. La donna che divenne strega (Pathos Edizioni, Torino, novembre 2020, 254 pagine) è il primo romanzo di Anita Bono Lisa.
Piemontese di nascita, Castellamonte e di residenza, Cuorgnè nel Canavese, ha le mani d’oro come artigiana e commerciante e ora anche la “penna” felice, ispirata dalla passione per i viaggi e per tutto ciò ch’è nuovo ed esotico.

Nei capitoli rapidi e scanditi da titoli brevissimi che caratterizzano il testo, propone una favola, a tratti con contenuti ultrafiabeschi di magia nera. È quella di Khiva, protagonista sempre determinata e combattiva, vissuta nel 1800 e prima tanto distante geograficamente, poi sempre più vicina ai nostri tempi e luoghi, nel “verde canavese”.

Nasce dallo stupro della madre, uzbeka cristiana a Bukara, minacciata di ogni ritorsione dai musulmani per non volere abiurare, convertendosi all’Islam. Abbandonata subito dopo il parto, la bambina piccola è forte, bellissima, con gli occhi di ghiaccio. Sopravvive ai primi stenti, allattata e allevata da una cagna, con la cucciolata appena partorita. Cresce da autentico capobranco, capace solo di ululare, ringhiare e azzannare, prima d’essere scovata dagli uomini, che non pensano ad altro che a sfruttare le sue tante capacità femminili. Le riservano un trattamento feroce, molto più duro di quello rispettoso degli animali nei confronti di Khiva. È lei stessa a darsi il nome, da una cittadina in cui si ritrova, in una fase della vita nomade.

È tenace, irriducibile, in un mondo durissimo. Un’autentica guerriera, nonostante le violenze fisiche, sessuali e morali che gli uomini le infliggono, da sempre, dall’età infantile.
Bambina in Uzbekistan e in terra afgana, giovane donna a Costantinopoli, esule nell’Italia meridionale, fino alla vecchiaia in Piemonte, nell’arco di oltre un secolo e mezzo di lunga vita. 150 anni? Niente domande, è una favola.

C’è poco da chiedere e da spiegare anche sulle sue doti di strega. Apprende da giovanissima formule di magia bianca nel bordello in cui è reclusa in Afghanistan. Le prostitute se le tramandano in segreto, insieme a conoscenze sulle qualità curative o venefiche di certe erbe, che impara a dominare, per avere un potere sugli uomini. Si addentra anche nella magia nera, che alle altre fa paura, ma su Khiva esercita una forte attrazione. Non la respinge, non le importa di vendere l’anima al diavolo, non potrebbe cambiare in peggio la sua vita già “infernale”. Può trasformarsi in qualsiasi animale voglia, stando attenta a non addormentarsi, perché il sonno provoca il ritorno alla forma umana e potrebbe crearle molti guai in certe situazioni in cui si caccia. Ma dovrà affrontare le conseguenze della scelta: un demone ricorderà che le viene concesso di salvare una vita, a condizione di procurarne loro un’altra, in cambio.

Usa i nuovi poteri per liberare le compagne di sventura, nel passaggio del romanzo in cui smaschera l’ipocrisia di una religione integralista. La prostituzione è proibita in Afghanistan, ma questo non impedisce che venga praticata, anche se trasforma in reiette della società le giovani schiavizzate a esercitarla, in cambio a malapena del solo vitto. Agli uomini non è permesso frequentare case di appuntamenti, per questo colpevolizzavano quelle povere ragazze dopo averle usate, perché se non fossero esistite non sarebbero stati attratti. Accusandole di essere stati trascinati nel peccato dalla loro tentazione, si autoassolvono.

Non sono considerate esseri umani, non le chiamano per nome ma con un numero, né saranno mai libere, nemmeno se anziane o malate. Versando veleno nel pasto, vengono eliminate, perché potrebbero raccontare quanto succede tra quelle mura. Il corpo, infilato in un sacco e trasportato nottetempo sopra un carro verso una buca fuori le mura, è cosparso di petrolio e dato alle fiamme.

Così si cancella l’esistenza di quella vita, scrive Anita Bono Lisa, denunciando la grande omertà in cui avviene il tutto: gli uomini non ne parlano per complicità, le donne sanno poco e se qualcuna sospetta, a chi potrebbe rivelarlo, se mai ne avesse il coraggio? L’accusa sarebbe comunque raccolta da un uomo, che come gli altri si avvale del “servizio” e ha tutto l’interesse a lasciare indisturbato quel commercio clandestino ipocrita.
Sporcizia nascosta sotto il tappeto, anche il più prezioso, di quelli realizzati nell’affascinate ma impenetrabile Oriente.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La lenta crescita del prezzemolo. La donna che divenne strega

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