La rivoluzione industriale del XIX secolo determina un grande sviluppo economico e un notevole progresso nel campo della scienza e della tecnica. Così entra a far parte della vita dell’individuo e della letteratura, che la rispecchia, un nuovo protagonista: la macchina, da intendere in senso lato.
L’“Inno a Satana” di Giosuè Carducci
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Uno dei primi scrittori a dare un contributo a riguardo è Giosuè Carducci nell’Inno a Satana, inserito nella raccolta Levia Gravia. Composto nel 1863, a 28 anni, fu pubblicato nel 1865 con lo pseudonimo di Enotrio Romano.
Duecento versi, articolati in strofette di quinari sdruccioli, tessono un elogio a Satana, principio materiale e spirituale, che assurge a simbolo di progresso, scienza, vitalismo. Ogni aspetto della modernità è un prodotto di Satana. È questa la premessa del componimento che la Chiesa condanna e che Carducci, invece, rovescia polemicamente in chiave positiva, celebrando la figura del Maligno. Una provocazione contro posizioni conservatrici e clericali, la sua, aderente a un certo settore dell’opinione pubblica di orientamento democratico che avanti negli anni definirà "una chitarronata". E la macchina cosa c’entra in tutto questo?
La macchina, cioè la locomotiva, viene definita “mostro della velocità” e compendia nelle strofe finali il progresso rappresentato da Satana.
Il Futurismo: l’estetica classica lascia il posto alla bellezza dell’automobile
Con il Movimento futurista la palla passa dal treno all’automobile, nella versione auto da corsa, “mostro formidabile”, immortalata nel suo dinamismo da Giacomo Balla e Luigi Russolo. “Più bello della Vittoria di Samotracia” scrive Marinetti. Avete letto bene, l’aggettivo bello è concordato al maschile perché a femminilizzare il sostantivo automobile ci pensa Gabriele D’Annunzio, in cui il mito della macchina svolge un ruolo chiave in funzione superomistica.
Ciò detto, aggiungiamo due parole sulla Vittoria di Samotracia: la ricordate? È una statua greca del II secolo a.C., alta quasi tre metri, priva della testa e delle braccia, che attualmente si trova al Museo del Louvre a Parigi. Rappresenta la vittoria alata, divinità greca ritenuta figlia di Zeus e talvolta associata alla dea Atena. È simbolo di un’estetica classica che il Futurismo rifiuta in favore della bellezza della velocità.
“Forse che sì, forse che no” di D’Annunzio: l’auto e l’aeroplano
Nel romanzo dannunziano Forse che sì, forse che no del 1910, l’esaltazione del progresso si estende all’automobile e all’aeroplano, capaci di superare i limiti imposti all’uomo dalla Natura. Vediamo da vicino la trama.
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Due sorelle, Isabella e Vanina, sono innamorate dell’aviatore Paolo Tarsis che ama la prima, anzi ne è schiavo, e ignora la seconda. Dopo un parapiglia di passione, gelosia, incesto tra fratelli e gare aeree - tornei della modernità - Vanina si uccide, Isabella scivola nella follia, Paolo torna ai suoi doveri di aviatore. Il protagonista allarga il suo raggio d’interesse ai nuovi mezzi della tecnica rappresentati dall’automobile e dall’aeroplano. È un pioniere della velocità che vive il rapporto con i motori sotto il segno di una retorica eroica da novello ulisside, esploratore di nuove strade e interamente proiettato verso la scoperta e la conquista. Un superuomo sportivo, ma prigioniero di una catena esistenziale malsana vicina al decadententismo dell’inglese Algernon Charles Swinburne (1837-1909). Da lui D’Annunzio attinge quelle pose estreme, ben presenti nel romanzo, che anticipano le esagerazioni spettacolari che di lì a poco avrebbero caratterizzato il cinema muto. Pensate all’inquietudine perversa e sadica dell’amante Isabella, trasposizione letteraria dell’amante in carica di D’Annunzio, la contessa fiorentina Giuseppina Giorgi Mancini. Il Vate intrattenne con la nobildonna, che finì i suoi giorni in una casa di cura, una relazione ventennale fatta di alti e bassi oscurata dal legame altrettanto burrascoso con Eleonora Duse.
Teatro del romanzo è un’Italia silenziosa, ricca di tracce del passato come Mantova, Pisa, Volterra dove i personaggi si fanno trascinare in un gioco distruttivo e autodistruttivo. Alla fine allontanata da sé la donna corrotta e fatale, Paolo Tarsis si vota alle sue imprese di trasvolatore con un eroismo dal piglio antico. Infatti quando si appropria dell’universo industriale, l’eroismo dannunziano lo maschera con atti e materiali mitici. Quanto al titolo, Forse che sì forse che no, è un motto presente nel soffitto ligneo a labirinto del Palazzo Ducale di Mantova.
La Scapigliature e il rimpianto del passato
In controtendenza si piazzano quegli anticonformisti velleitari degli Scapigliati, che assumono un atteggiamento di rifiuto nei confronti della modernità rappresentata dalla locomotiva:
Orrorifica manifestazione demoniaca d’una novità esistenziale troppo lontana dai parametri consueti alla società e alla cultura nazionale
chiosa a riguardo il critico e drammaturgo contemporaneo Roberto Tessari.
In buona sostanza rimpiangono un passato in cui la strada ferrata non aveva ancora aggredito la bellezza. Una condanna della macchina, la loro, riconducibile a quell’épater led bourgeois che – secondo il Binni - avrebbe avuto il sopravvento sulla consapevolezza teorica e sulla ridefinizione dei canoni poetici.
La strada ferrata di Emilio Praga
Emilio Praga dedica al treno un celebre componimento intitolato La strada ferrata. Anche lui condanna il nuovo mezzo di trasporto? La risposta è ni, perché la sua posizione a riguardo è piuttosto ambivalente.
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Pubblicata dapprima il 26 agosto 1877 in una rivista di settore, la poesia venne inserita nella raccolta postuma Trasparenze. Il testo si colloca nel dibattito generato dallo sviluppo delle linee ferroviarie nel Milanese che per alcuni avrebbero stravolto l’identità cittadina. È probabile che Emilio Praga facesse riferimento alla tratta Milano-Pavia-Genova di imminente realizzazione. Teniamo presente che la città meneghina a partire dal 1860 vive uno slancio urbanistico promosso dall’impero Asburgico e culminante nella costruzione della Stazione Centrale, quella vecchia, che spaccò l’opinione pubblica tra innovatori e conservatori. Questi erano favorevoli alla conservazione di quelle aree verdi sotto le quali sarebbero di lì a poco iniziati i lavori di scavo per ampliare la rete ferroviaria. Tra loro c’è Emilio Praga.
Ma non si tratta di sensibilità ambientalista come la intendiamo noi. È in queste aree verdi dalla vegetazione spontanea lasciate incolte che i pittori scapigliati come lui dipingevano en plen air. Si tratta di bellezza e ispirazione creativa. Cosa rappresenta il treno per Emilio Praga? Nella querelle da che parte sta?
Da una parte il treno, simbolo della borghesia in ascesa, è responsabile della distruzione di centri agricoli e degli spazi verdi secondo una logica oppositiva tra civiltà contadina e civiltà cittadina; tra il tempo ciclico della natura e la velocità ipertrofica del mezzo; tra stanzialità e mobilità sociale; tra natura e artificio. Dall’altra a sorpresa il mezzo rappresenta l’inizio di una nuova era di connessione: potrà affratellare gli uomini e accorciare le distanze.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: L’uomo e la macchina nella letteratura dell’800 e ’900: da Carducci a D’Annunzio
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