L’ultima cosa bella sulla faccia della terra
- Autore: Michael Bible
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2023
L’ultima cosa bella sulla faccia della terra è quello che vediamo prima di morire. Per Iggy, sono le foglie del corniolo fuori dalla finestra della prigione in cui è rinchiuso in attesa di scontare la pena capitale. Quelle foglie, che cadono in autunno e rinascono in primavera, sono una metafora del tempo che inesorabilmente fugge e ci avvicina, di ora in ora, alla fine.
Il titolo originale del libro era, non a caso, Ancient Hours, “ore antiche”, reso in italiano come L’ultima cosa bella sulla faccia della terra nella poetica traduzione di Martina Testa per Adelphi.
Il tempo è presente, come un protagonista invisibile, sin dal meraviglioso incipit del romanzo di Michael Bible: un’apertura plurale con il Noi, ma coniugata all’imperfetto “eravamo innocenti”, che subito ci immerge in una desolazione senza scampo, segnando il confine indeterminato tra la giovinezza – l’innocenza – e la vecchiaia – l’età della colpa o del rimpianto?
Eravamo innocenti. Convinti di essere speciali. Sbronzi tutti i weekend al centro commerciale. Il mondo era nelle nostre mani. Non ci importava del tempo. L’amore era una cosa scontata. La morte aveva paura di noi. Adesso abbiamo il grigio sulla barba. Il cielo è un livido viola. Il centro commerciale è morto. Siamo i vecchi che avevamo giurato di non diventare mai.
Come lettori ci sentiamo immediatamente coinvolti in questo coro di voci che si innalza dagli abitanti di Harmony, un’immaginaria cittadina del sud degli Stati Uniti, anonima e tuttavia così familiare, una “cittadina come tante, tale e quale la vostra”. Già il nome è una beffa: Harmony, sembra un luogo idilliaco, il palcoscenico perfetto per una plausibile love story, eppure il sentore di tragedia si intuisce sin dalle prime battute “eravamo innocenti” e da quell’avvertimento inserito poche righe più sotto “piena di santi e peccatori, indistinguibili”. C’è una Harmony in ogni dove, in ogni paese, in ogni nazione, da qualche parte nel mondo; dovunque si raduni una comunità umana c’è una Harmony, come una moderna Spoon River ereditata dal capolavoro di Edgar Lee Masters di cui pare di udire l’eco: “Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley”. Lo stesso ritmo breve e cadenzato della poesia pervade la narrazione di Michael Bible.
I protagonisti di questa storia non dormono sulla collina o, perlomeno, non tutti; qualcuno è sopravvissuto. Tra loro Iggy, il fautore della terribile strage che ha segnato per sempre un “prima e un dopo” nella vita di Harmony: la sua voce, resa in un lungo monologo formulato come flusso di coscienza, occupa la parte centrale del racconto che potrebbe essere intitolata “Le memorie di un condannato a morte”.
Bible, del resto, ci aveva avvertito “santi e peccatori sono indistinguibili” ed ecco che compie il rovesciamento facendo empatizzare il lettore proprio con Iggy, colui che ha spezzato per sempre la presunta pace di Harmony appiccando l’incendio nella chiesa battista diciotto anni prima, un rogo in cui sono morte venticinque persone.
Dietro il velo dell’apparenza scorgiamo il vero volto del killer, ovvero quello di un ragazzo emarginato, bullizzato a scuola e poi finito nel vortice delle droghe e delle dipendenze; un ragazzo che appicca un incendio nel quale vorrebbe morire, divorato dalle fiamme per non sentire più il “male” insito nell’esistenza, ma che non muore poiché in un attimo di indecisione il fiammifero gli scivola dalle mani tremanti cadendo a terra e dando luogo all’irreparabile. Rimane sospesa la domanda: l’avrebbe appiccato comunque quell’incendio? Stava per fermarsi?
In ogni caso Iggy ora attende in una cella l’ultima chiamata per l’esecuzione capitale, è un dead man walking e, proprio adesso che non ha più nulla da vivere, inizia a scoprire il bello della vita osservando le foglie del corniolo e rimpiangendo il futuro che non conoscerà mai.
Nella storia di Iggy non ci sono colpevoli né peccatori, eppure lui sembra essere l’unico innocente; proprio lui che agli occhi del mondo intero è uno psicopatico deviato. Michael Bible non intende assolverlo, ma condurci a rivalutare il nostro stesso concetto di “normalità” riga dopo riga, a partire dal nome della cittadina, Harmony, sotto il quale si nasconde un calderone ribollente di peccati, maldicenze, segreti.
La chiesa stessa, nel quale ha luogo la tragedia, si rivela essere il luogo meno sacro e puro; dietro quella gente che prega inginocchiata sui banchi di legno si nascondono omofobi, razzisti, traditori, ed ecco che il rogo acquisisce un significato quasi biblico, una moderna “apocalisse”. Forse era proprio questa l’intenzione dell’autore che ha scelto di inserire la parola Bibbia persino nel suo pseudonimo “Bible” (il suo nickname social è “biblicalmike”) e, a un certo punto del racconto, fa persino riferimento a una “pioggia veterotestamentaria”.
La religione riveste un ruolo negativo per tutta la durata della narrazione, dietro i presunti santi si nascondono i veri peccatori, coloro che sono disposti a picchiare, seviziare, limitare la libertà dell’altro in nome di un’ideologia.
L’epifania che Michael Bible vuole evocare non è religiosa, è un’epifania poetica che si condensa nel luminoso finale con i “tulipani che si aprono verso il sole”. Hanno paragonato la scrittura di Bible a grandi nomi della letteratura americana, tra cui Faulkner e O’Connor, in realtà ricorda soprattutto Walt Whitman e la sua prosa rapida e vibrante ha il ritmo stesso della poesia; una sorta di song of myself che ci investe tutti, ci riguarda tutti e davvero ci travolge come pioggia facendo vibrare sensazioni, ricordi, pensieri.
L’ultima sezione del libro è dedicata a Joe McCloud, detto “Nuvola”, che il giorno della strage aveva soli tre anni e, insieme a Iggy e alla maestra Trudy, è l’unico sopravvissuto. La sua vita è continuata, nonostante tutto, e ora è un ragazzo in gamba che racchiude nel cuore un dolore inenarrabile: la perdita di entrambi i genitori. Nel luminoso finale di Bible una donna dice a Joe: “Tu sei uno dei Buoni” e lui crede di udire la voce della madre.
Quella frase isolata, che rieccheggia i versi cristiani dei Salmi, appare come un atto di assoluzione che si stende come un balsamo sulla tragedia.
C’è una parte del libro che mi ha particolarmente colpito: un personaggio, Farber, cerca di raccontare alla sua ragazza un episodio accaduto in biblioteca tanti anni prima. Si tratta di un fatto all’apparenza banale che tuttavia per lui ha avuto un’importanza rivelatoria. Comincia e ricomincia il racconto più volte senza riuscire a restituire la grande verità di quell’istante. Le parole sembrano manchevoli, inappropriate, inadatte a riprodurre un silenzio epifanico capace di irradiare moltitudini. Il racconto di Farber in apparenza fallisce, ma la scrittura di Michael Bible no: ci ricorda quello che dovrebbe fare la letteratura, ovvero riuscire a raccontare l’irripetibilità di un momento che sprigiona un’infinità di significati, proprio come la parabola esistenziale di una vita racchiusa nel “vortice di polvere” cantato dal suonatore Jones.
Michael Bible ci ricorda che la vita non ha senso narrativo, ma siamo noi che glielo diamo, attraverso la memoria. Cosa rimane, infine? Attimi, sensazioni, ricordi, una luce radente color miele che si posa sulle cose, tulipani che si schiudono nel sole rammentandoci che la vita è qualcosa che ci attraversa.
Il vero soggetto della narrazione è il tempo, dicevamo, perché sin dal primo verbo coniugato all’imperfetto Bible ci dice che “tutto finisce” ed è proprio questo presagio di fine a proiettare un’aura malinconica sull’intera storia.
La cittadina di Harmony sembra appartenere al passato, al presente e persino al futuro, è ogni luogo su questa terra in cui gli uomini nascono, vivono, muoiono; è la Spoon River nascosta in ogni città.
Nel mezzo, piantata come una spada nella roccia, c’è quella che Michael Bible chiama “la Costante”, uno stato d’animo di indefinibile malessere, un’angoscia latente che tutti sperimentiamo, nostro malgrado, nel corso della nostra esistenza mortale. È ciò che accomuna anche tutti i personaggi di questa storia, che non ha la pretesa di essere una narrazione che dice tutto, che analizza tutto, per poi concludersi, eppure rimane attaccata addosso al lettore come una sensazione indecifrabile.
L'ultima cosa bella sulla faccia della terra
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