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Storia della letteratura

“L’Appennino” di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto

“L’Appennino” è un elegante poemetto che apre l'opera “Le ceneri di Gramsci” di Pier Paolo Pasolini e mostra il viaggio lungo la penisola italiana, offrendo un pregevole spaccato paesaggistico, antropologico, storico.

Federico Guastella
Federico Guastella Pubblicato il 12-01-2023
“L'Appennino” di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto

A Sciascia piacque “L’Appennino” di Pier Paolo Pasolini (datato in calce 1951 e pubblicato su «Paragone-Letteratura» del dicembre 1952), ritenendola una delle sue poesie più belle. Adesso è il primo poema delle “Ceneri di Gramsci”, sottotitolato “Poemetti”, raccolta di undici componimenti pubblicata nel 1957 da Garzanti con prefazione dell’autore (già apparsi sulle riviste letterarie “Nuovi Argomenti” e “Officina”), successivamente all’anno in cui si verificarono due rilevanti eventi: la destalinizzazione nel XX Congresso del Pcus in Urss e l’invasione dei carri armati sovietici in Ungheria.

Indubbiamente dovette agire in Pasolini l’esperienza della borgata espressa nei suoi primi romanzi (da specificare in proposito che Il volume uscì a due anni di distanza dal romanzo Ragazzi di vita), nonché la frequentazione con gli scritti di Gramsci, luminoso personaggio determinante nella sua formazione culturale, etica e civile. La valutazione di Calvino non si fece attendere, definendo l’opera

“uno dei più importanti fatti della letteratura italiana del dopoguerra e certo il più importante nel campo della poesia”.

Analisi del poemetto L’Appennino di Pier Paolo Pasolini

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“L’Appennino”, costituito da sette parti in strofe di eleganti terzine endecasillabe dalla singolare scansione ritmica, si apre con la rappresentazione del paesaggio della Lucchesia: “muto, è la muta luna che ti vive”. L’astro notturno è la sola unica vita: “non c’è altra vita che questa” ad illuminare lo scenario appenninico percepito come silenzioso e muto. Da qui il poeta, lungo un’Italia che si sbianca, ne troverà la dimensione simbolica. È la figura di Ilaria del Carretto, scolpita da Jacopo della Quercia e cantata da D’Annunzio in “Elettra” e da Quasimodo in “Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto”, ad essere l’allegoria dell’Italia, terra di morti come Leopardi l’aveva rappresentata nella canzone “Ad Angelo Mai”:

Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia
perdura nella morte, quando
la sua età fu più pura e necessaria.

Lei, le cui palpebre “son di marmo / rassegnato” nel “claustrale transetto” del duomo di Lucca, è la patria “perduta nella morte”, nei “secoli vuoti” di storia come appaiono nel sonno marmoreo di Ilaria:

Nelle chiuse palpebre d’Ilaria trema
l’infetta membrana delle notti
italiane… molle di brezza,
…
… All’Italia non resta
che la sua morte marmorea, la brulla
sua gioventù interrotta.

Soltanto la memoria vitale del suo splendore resta all’Italia. Il canto si fa dolore quando Pasolini, che s’immerge nella vita degli esclusi, mostra una condizione disumana in “villaggi ciechi tra lucide chiese / novecentesche e grattacieli”.

La veloce carrellata, che aveva luminosamente inquadrato la suggestiva immagine di “ Orvieto illeso tra i secoli”, “stretto sul colle sospeso / tra campi arati da orefici”, “dove azzurri / gli etruschi dormono”, si conclude a Napoli. Vi si spalanca il suo “golfo affricano” ed è la città ricettacolo di contraddizioni: “nazione / nel ventre della nazione...” come se l’unità risorgimentale non sia mai stata realizzata. Poggio, povero rione dove tutto è “preumano, e umanamente gioisce”, dove la “sfrontata presenza, di stracci, dori” contrasta con una gente “abbandonata al cinismo più vero / e alla più vera passione; al violento / negarsi e al violento darsi”. Il poeta così dichiara:

“contro il riso del volgare fu / ed è inutile ogni parola / di redenzione”.

Un affresco dunque d’ampio respiro, le cui terzine finali rendono tetro il fondo pittorico del poemetto per l’assenza del protagonismo popolare nella storia nazionale:

Se ognuno sa, esperto, l’ingenuo linguaggio
dell’incredulità, della insolenza,
dell’ironia, nel dialetto più saggio

e vizioso, chiude nell’incoscienza
le palpebre, si perde in un popolo
il cui clamore non è che silenzio.

È il travagliato viaggio di luce e di lutto, soprattutto; è lo sguardo geografico e culturale, storico e antropologico sul paese reale dove a Roma, che non è la coscienza storica, ”s’incrina la quiete”: “disfatte borgate / irreligiose, dove tutto si ignora / che non sia sesso, grotte abitate / da feci e fanciulli”. C’è in sostanza la consapevolezza dell’assenza e della perdita dettata dalla persistente passione civile che nutre l’estetica della poesia che diventa espressione dei conflitti sociali in un contesto dominato dalla corruzione del potere. E forse vana si fa la speranza di liberazione.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “L’Appennino” di Pier Paolo Pasolini: analisi e commento del poemetto

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