

In via Fani io non c’ero
- Autore: Amedeo Lanucara
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2025
Roma, quartiere Trionfale, mattina del 16 ottobre 1978. Le immagini impresse nella memoria collettiva sono quelle in bianconero trasmesse dai TG speciali: la Fiat 130 scura di Aldo Moro schiacciata tra l’Alfetta chiara della scorta e la 128 degli assalitori, che le ha bloccate all’incrocio di via Fani con via Stresa. Il presidente della DC, però, non era mai arrivato sul luogo dell’agguato, lo sostiene un anziano giornalista, ora saggista investigativo, Amedeo Lanucara, nel nuovo libro che solleverà scalpore o magari passerà inosservato o sarà boicottato. Fefè Editore lo ha pubblicato con alcune immagini, schizzi, cartine in bicromia nel testo e con un lungo titolo esaustivo: “In via Fani io non c’ero”. Moro lo scrive nelle lettere e nel memoriale dalla prigionia. Prima guida ragionata per decrittare i suoi scritti in cattività (Roma, aprile 2025, collana Pagine Vere, 402 pp.).
Non è la prima volta che l’attivissimo pugliese novantenne interviene incisivamente su temi delicati. Questa volta recidiva il reato di lesa verità ufficiale sul sequestro e delitto Moro. Nega che siano state le Brigate Rosse. Insiste, e non da ora, che i brigatisti non hanno partecipato all’operazione militare speciale ad alta intensità eseguita quel giorno. Basta scorrere l’indice per restare impressionati. E attratti, se interessati.
I contenuti di questo saggio sono stati lucidamente sintetizzati da Lanucara in un’eccellente pagina di giornalismo, l’intervista pubblicata con il titolo “Perché Moro in via Fani non poteva esserci”, realizzata da Giuseppe Fumai, redattore del mensile “Insieme per la Puglia”, diretto dal politico, giornalista e scrittore Gero Grassi, deputato per tre legislature, anima della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro (2014-2018) e tra i massimi biografi dello statista di Maglie ed esperti di quella vicenda politico-criminale. Il libro di Lanucara segue il precedente Quando la Cia rapì Moro (2023), entrambi Fefè Editore, ma se quello era un noir fantapolitico, questo è, per interpretazione diretta dell’autore,
un lungo reportage interpretativo delle prose di Moro dal carcere, che nessuno finora aveva tentato.
L’intervista è proposta in apertura, come prefazione, e non c’è rischio di spoilerare se si riporta quanto anticipato da Amedeo: Moro fu prelevato prima di via Fani con un trucco (col suo consenso) e non dalle Br, ma dalla Cia. La strage della scorta avvenne dopo, ad opera di Corpi speciali militari. Le prove? Sono le Br a non averle fornite, dissimulate nell’assunzione di responsabilità totale e indiscriminata e date per scontate nello “strapazzato” Memoriale Morucci. Perché non provvidero in alcun modo a registrare e documentare quell’azione straordinaria? Nemmeno il momento del dichiarato passaggio di Moro dalla 130 alla loro 132. Nella prima foto diffusa il 25 marzo 1978 (comunicato Br n.2), dietro il prigioniero campeggia un drappo con una grande stella a 5 punte, ma potrebbe averlo confezionato chiunque; sarebbe una firma inconfutabile solo se figurassero ai suoi fianchi due terroristi riconoscibili. Insomma: c’è chi rivendica, ma omette di dimostrare d’essere stato davvero lui.
Nelle lezioni di filosofia del diritto, il prof. Aldo Moro spiegava che tutti i poteri sono limitati, anche quelli dello Stato, da altri poteri dello Stato. Aggiungeva che l’unico a configurarsi come dominio pieno e incontrollato è il potere di un esercito d’occupazione sul territorio d’un Paese vinto. Nella sua prima lettera a Cossiga, a fine marzo, scrive testualmente di trovarsi “sotto un dominio pieno e incontrollato”, che non potrebbe mai essere quello delle Br, sottoposto alle indagini di Procure, Forze dell’ordine e Servizi. Con un sotterfugio linguistico-dottrinale criptico, che tanto gli piacevano, il Moro cattedratico di filosofia del diritto faceva sapere a Cossiga, docente di diritto costituzionale, d’essere in mano a chi ha sconfitto l’Italia in guerra.
Poche righe prima, aveva scritto d’ignorare cosa fosse avvenuto dopo il suo prelevamento. Moro, secondo Lanucara, ha sempre adottato una precisione maniacale nell’uso dei vocaboli, e per questo ha un peso significativo il non avere preferito “rapito”, “sequestrato” o qualche sinonimo al “prelevato”, participio di un verbo che potrebbe contemplare un’azione con il consenso di chi è preso. In tutte le lettere rese note nei 55 giorni, cita le Brigate Rosse una volta sola, quando scrive con sdegno: “Non permettetevi d’oltraggiarmi, insinuando che siano le Br a dettarmi le lettere”. Le ignora nelle altre lettere pubblicate allora, mentre riappaiono in quelle rese pubbliche dopo, risalenti agli ultimi giorni, quando la Cia lo avrebbe passato ai brigatisti, per l’esecuzione. E quelli “tergiverseranno, sperando di far cassa coi soldi messi in campo dal Papa per un riscatto”.
In più, un Moro seduto in auto avrebbe seriamente rischiato d’essere ferito o ucciso nella sparatoria in via Fani. Come azzerare il rischio di proiettili di rimbalzo all’impatto contro vetri e lamiere delle auto? Nessun rapitore lo avrebbe esposto all’alea dell’agguato. In realtà e involontariamente, le stesse fonti brigatiste accreditarono i due tempi diversi, prima il prelievo, poi la strage. Non si può interpretare diversamente il Comunicato n. 1:
Un nucleo armato delle Br ha catturato e chiuso in un carcere del popolo Aldo Moro [...] La sua scorta armata [...] è stata completamente annientata.
Lanucara (Martina Franca, 1935) vive a Bracciano. Viaggiatore ed esperto di Medio Oriente, vanta una carriera lunghissima di cronista, inviato, direttore e autore di saggi.

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