Il sogno di Achille. Il romanzo di Gigi Riva
- Autore: Carlo Vulpio
- Genere: Storie vere
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: Chiarelettere
- Anno di pubblicazione: 2020
Felici quegli scrittori che nel soggetto di un libro trovano la materia di un mondo e la passione di raccontarlo. È il caso del giornalista e scrittore Carlo Vulpio, che dopo la suggestiva biografia romanzata dedicata al pittore Ligabue (Il genio infelice, Chiarelettere 2019) torna in libreria con un altro romanzo di una vita celebre, quella del calciatore Gigi Riva, intitolata Il sogno di Achille. Il romanzo di Gigi Riva (Chiarelettere, 2020). Del suo eroe Vulpio ripercorre l’origine, radicata in un’infanzia negata, i trionfi e le cadute, il crepuscolo che introduce a un finale che tuttavia "non c’è".
Il titolo si riferisce a un quadro di Alberto Savinio, prediletto da Riva, che rappresenta un Achille malinconico sulle rive del mare, immerso nel sogno in cui rivede Patroclo, l’amico perduto e rimpianto, sullo sfondo di un temporale che si trasfigura intorno a lui in un presagio di futuro. La vicenda di Gigi Riva è del resto presentata come la “storia di un sogno”, quello spazio iniziatico, sospeso tra la quotidianità e un divenire impalpabile in cui l’eroe incontra e riconosce tanta parte di sé e del proprio destino nella figura di un altro, lontano e pur tuttavia congeniale, in un orizzonte morale e ideale comune in cui ravvisare la traccia di un “cammino obbligato”.
Questo cammino per Riva è presagito fin dalla fanciullezza dalla “voglia di emulazione” che si nutre di persone e vicende esemplari di altri atleti già affermati, emblemi viventi di un destino consorte: è il caso dell’airone Fausto Coppi, del fuoriclasse magiaro Puskas, e di altri eroi ribelli segnati da una grazia inconciliata col destino e aderente in modo paradossale a esso. Se, come sosteneva Pasolini per i poeti, dietro una poesia deve sentirsi la voce di tutti i poeti di ogni tempo, lo stesso vale anche per gli atleti, tanto più per una personalità come Gigi Riva, segnato da un’infanzia dolorosa e costretto a contemplare fin da fanciullo “l’altra faccia della vita, che è la morte”. Fin dall’esordio:
“La prima cosa che capì da bambino fu che erano poveri. Non riuscì mai a dimenticarlo.”
Vulpio, con uno stile limpido e coinvolgente da cantastorie fondato su una ricca documentazione storica, inscrive la biografia del campione e del suo sogno nel dominio della leggenda, intesa essenzialmente come racconto scaturente da una duplice urgenza di esaltazione ed esemplarità. L’esaltazione di un uomo che è riuscito a incarnare un’idea di civiltà, un modello umano dal profilo antico e nobile, un po’ come la sua Cagliari, la “Città di Dio” isolana in cui trovò la sua consacrazione di atleta e la sua realizzazione di individuo capace di concentrare nel suo nome “scandito come un grido di guerra” l’orgoglio identitario, la “balentia”dell’intero popolo sardo.
L’esemplarità di questo “romanzo” è nelle gesta del campione che ripresentano in forma aggiornata abiti, valori e imprese degli eroi guerrieri dei poemi antichi (la veglia, l’agonismo, il tormento e la gloria, il sacrificio, la caduta, sormontate dalle ombre di un “presagio funesto”), e consiste principalmente nel presentimento tragico, ancor più che epico, di un disegno imperscrutabile del Fato
“Quasi che gli avvenimenti della vita di ognuno, anche quelli minimi, alla fine non fossero altro che il risultato dell’azione collettiva del caos con i suoi intrecci, del caso con i suoi capricci, degli dei con i loro conflitti e, infine forse anche degli uomini con la loro irrilevanza."
Ne consegue la lezione, che forse per certi versi si intreccia a un sentimento della realtà sconfinante nel sentimento del sacro, per cui sovente è necessario disobbedire al destino (come si legge nell’opera dello scrittore sardo Gavino Ledda), sovvertirne il copione già ordito per impostare concretamente le decisioni fondamentali della vita, interiore ed esteriore, e ritrovare in ciò che siamo un’insospettabile docilità e obbedienza, in cui consiste la nostra compiutezza.
È proprio il caso, emblematico, di Riva, giunto in Sardegna quasi sospinto da una sorte beffarda per trovarvi invece una definizione del proprio destino di eroe senza retorica e senza sorriso, il volto scabro e impervio come le pietre di questa terra antica, "di cui si sentiva figlio come un nativo".
Con Il sogno di Achille Carlo Vulpio, intrecciando la rievocazione di una leggenda vivente dello sport agli eventi più significativi della Storia contemporanea, ci invita a rivisitare, attraverso quella potente molla di affermazione sociale che è il calcio, e la sua "magnifica, normale imperfezione, propria della vita", una memoria condivisa del nostro tempo, dal secondo dopoguerra ai nostri giorni: lo storico scudetto del Cagliari che intrecciandosi in queste pagine, come sulle prime pagine dei giornali del tempo all’approvazione dello Statuto dei lavoratori e della legge sul divorzio, ben rappresenta l’evoluzione antropologica, sociale, civile, di un’Italia che tardivamente si avviava a diventare "adulta". Un modo, sembrerebbe, di condividere lo stesso sogno, di continuare, insieme, a sognarlo.
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