Il mito di Narciso, il giovinetto innamorato della propria immagine, ha influenzato la filosofia, la letteratura, l’arte, la musica, il cinema e la psicanalisi. Assecondando la propria disciplina, molte sono state nel tempo le invenzioni e le varianti nel rispetto del concetto greco di “metamorfosi”, che è quello di mutare la propria forma, dove Eroi e Dei, pur mantenendo la propria identità, si trasformano in sassi, animali e piante.
Da dove deriva il termine Narciso?
La parola “narciso” deriva dal greco nárkissos, riferito al nome del fiore della grande famiglia delle Amarillidacee. Secondo alcuni linguisti l’origine della parola è ricondotto pure a nárkē (sonno, torpore), da cui il vocabolo “narcotico”, in quanto la pianta del narciso era usata per produrre sedativi e ipnotici.
Questa interpretazione è suggestiva se la riconduciamo al comportamento del Narciso mitologico che, chino su sé stesso di fronte allo specchio di uno stagno, sembra intontito (anestetizzato, in stato di ipnosi) e, dunque, assente a qualunque segnale esterno: dalle offerte amorose di maschi e femmine alla voce spezzata della ninfa Eco.
Potrei azzardare che il Narciso mitologico, rifiutando l’amore – la conoscenza dell’altro - suggella attraverso un blocco affettivo la sua estraneità al mondo. In Narciso è assente quello che è noto come lo “sguardo d’amore”.
Sul tema della “voce spezzata” di Eco, citata anche da Ovidio:
Delle molte parole non poteva che ripetere che le ultime.
Rimando al saggio della filosofa Marina Mizzau (1936-2023) Eco e Narciso, parole e silenzi nel conflitto uomo-donna (Boringhieri, 1981) la quale sostiene che:
Nel microcosmo della coppia (...) la ricerca di autonomia della donna passa attraverso il confronto e lo scontro verbale con l’uomo.
Il mito di Narciso nella psicoanalisi
La psicoanalisi ha colto a piene mani suggestioni e teorie sul mito di Narciso, fino a farne nel tempo un soggetto sociopatico, descrivendo nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali la sindrome del Disturbo narcisistico della personalità.
Freud ne parla nell’ Introduzione al narcisismo del 1913, Heinz Kohut (1913-1981), psicanalista austriaco naturalizzato statunitense, teorizza un “Sé grandioso quale residuo dell’infanzia”.
Nel 1921 la scrittrice e psicanalista Lou Andreas Salomé (1861-1937) nel breve saggio Il narcisismo come duplice tendenza, inserito nel volume Anal un Sexual (Guaraldi, 1977), scrive:
Il Narciso della leggenda non sta davanti a uno specchio artificiale, bensì davanti a quello della natura: forse rimirando nell’acqua non solo se stesso, ma anche se stesso come tutto, diversamente forse non avrebbe indugiato, ma sarebbe fuggito. In effetti, non c’è sempre sul suo volto, accanto al rapimento, la melanconia? In che modo le due cose si fondono in una: felicità e dolore, ciò che viene sottratto a se stesso e ciò che viene respinto su se stesso, dedizione e autoaffermazione: è qualcosa che si traduce in immagine solo per il poeta.
Infatti Narciso, per i poeti e gli scrittori, è un eroe, personaggio a volte crudele e satanico, altre volte mistico e profeta, o impigliato nei sogni infantili.
Esiste una versione del Narciso in una raccolta anonima di novelle toscane del Duecento, nota come il Novellino:
Qui conta come Narcis [s ’] innamorò de l’ombra sua.
Narcis fu molto buono e bellissimo cavaliere. Un giorno avvenne ch’elli si/riposava sopra una bellissima fontana, e dentro l’acqua vide l’ombra sua molto/bellissima.
E cominciò a riguardarla e rallegravasi sopra alla fonte, e l’ombra sua facea lo simigliante. E cosi credeva che quella ombra avesse vita, che istesse /nell’acqua, e non si accorgea che fosse l’ombra sua. Cominciò ad amare e a /innamorare sì forte, che la volle pigliare. E l’acqua si turbò, l’ombra spario; /ond’elli incominciò a piangere. E l’acqua schiarando vide l’ombra che piangea. /Allora elli si lasciò cadere nella fontana sicché annegò. /Il tempo era di primavera; donne si veniano una fontana alla diportare; videro il /bello Narcis affogato. Con grandissimo pianto lo trassero alla fonte, e così ritto/l’appoggiaro alle sponde; onde dinanzi allo dio d’amore andò la novella. Onde lo/dio d’amore ne fece nobilissimo mandorlo, molto bello e molto bene stante, e fu/ed è il primo albero che prima fa frutto e rinnovella amore.
Anche Petrarca (1304-1374) nel Canzoniere richiama il mito di Narciso quando rimprovera Laura – la donna amata - per l’uso dello specchio definito “rivale d’amore”.
Certo, se vi rimembra di Narcisso, questo e quel corso ad un termino vanno, benché di sì bel fior sia indegna l’erba.
Il mito di Narciso nel Novecento: da Pascoli a Rilke
Nel Novecento il mito del bel giovinetto è sempre attuale, pur con diverse varianti.
Hermann Hesse in Narciso e Boccadoro (1930) descrive il contrasto tra spiritualità e natura, tra dionisiaco e apollineo.
Oscar Wilde con Il ritratto di Dorian Gray (1890) narra di un giovane, bello e innocente che fa della sua bellezza un rito perverso.
Paulo Coelho ne fa l’introduzione al suo celebre romanzo L’alchimista (1988):
“L’Alchimista conosceva la leggenda del Narciso, un bel giovane che tutti i giorni andava a contemplare la propria bellezza in un lago. Era talmente affascinato da se stesso che un giorno scivolo e morì annegato”.
Rainer Maria Rilke ne parla nei I sonetti a Orfeo e lo descrive nelle Poesie Sparse (1907- 1926).
Svanì Narciso. Dalla sua bellezza
senza tregua esalava la sostanza,
densa come un profumo d’eliotropo.
Ma suo destino era che si vedesse.
Ciò che emanava riassorbiva in sé il suo amore
e più nulla di lui era nel vento aperto
e chiuse il cerchio delle forme estatico
e si abolì e non poté più essere.
Giovanni Pascoli ne scrive nei Poemi Conviviali (1904) con il poemetto I Gemelli, traendo spunto da un passo di Pausania che narra una variante del mito ovidiano di Narciso, innamorato della sorella gemella.
Nelle note alla seconda edizione, pubblicata nel 1905, scrive lo stesso Pascoli che:
Questi due gemelli (…) io ho cambiati tutte due nel leucoion vernum e nel galanthus nivalis (…) due fiori del principio di primavera.
Di seguito un estratto del poema:
I due puri gemelli esili fiori,
fu breve la lor vita anche di fiori.
Amor fu quello prima dell’amore.
Non, forse, amore, ma dolor, sì, era.
Sparvero prima della primavera.
La critica letteraria nei Gemelli – un maschietto e una bambina - ha colto gli amori difficili di Pascoli e l’incestuoso rapporto, morboso e ossessivo con le due sorelle, Ida e Maria, del poeta.
Nell’introduzione ai Poemi Conviviali (BUR, 2010) il filologo Pietro Gibellini scrive che:
“Il mito di Narciso viene rivisitato in chiave incestuosa”.
Il mito di Narciso narrato da Conone, Pausania, Ovidio
Esistono, pertanto, più versioni del mito di Narciso, tra cui la versione riferita alle Narrazioni di Conone, mitografo greco vissuto nel I sec. a.C., e quella di Pausania, scrittore greco vissuto nel II sec. d. C.
Per Conone il bellissimo e superbo Narciso viene punito dagli Dei per aver respinto tutti i suoi pretendenti di sesso femminile e maschile e lo stesso Eros.
Nell’antica Grecia era uso una forma di pederastia iniziatica. Respinge pure il giovane Aminia, al quale dona come pegno d’amore una spada affinché possa uccidersi.
Nella versione ellenica Narciso, per punirsi dell’antico misfatto, si uccide con la spada data ad Aminia.
Per Pausania, invece, il giovinetto Narciso aveva una sorella gemella, del tutto somigliante a lui, con la quale andava a caccia. Quando questa morì Narciso nel rimirarsi nella fonte vide che la sua immagine assomigliava al viso della sorella amata e ciò gli fu di grande consolazione.
“Narcisso avea una sorella gemella, in tutte le altre cose simile a lui nell’aspetto, così come ambedue avean simile la chioma e la veste con cui erano vestiti e alla caccia andavano insieme; si accese allora Narcisso d’amore per la sorella” (Pausania, Guida o Periegesi della Grecia).
In queste due versioni elleniche non c’è alcuna traccia di Eco descritta da Ovidio, la linfa loquace e pettegola delle montagne, punita dalla dea Giunone (Era) togliendole l’uso della parola e condannandola a dover ripetere solo le ultime parole che le venivano rivolte o che udiva.
Così, secondo Ovidio, Giunone minaccia Eco:
Ben poco ti sarà concesso di valerti di questa tua lingua che mi ha ingannato, e di molto breve durata sarà l’uso della tua voce.
Il mito di Narciso narrato da Ovidio nelle Metamorfosi
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La versione più nota e diffusa nella cultura europea del mito del bel Narciso è quella del poeta romano Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 18 d.C.) contenuta nel “Libro Terzo” de Le Metamorfosi.
Narciso, in questa versione è il giovinetto innamorato della sua stessa immagine riflessa dal corso d’acqua e rifugge dall’amore della ninfa Eco.
Ovidio, con il suo Narciso, secondo gli studiosi ha reinterpretato quella proveniente da alcuni frammenti attribuiti al poeta e grammatico Partenio di Nicea ritrovati in un papiro di Ossirinco.
Eco, nella versione di Ovidio, è:
Disprezzata, si nasconde nel bosco, e, vergognosa si fa schermo di frondi alla faccia, quindi vive solo di lui negli antri solitari (...). I continui affanni assottigliano il suo misero corpo, la magrezza affloscia la sua pelle (…) non le rimane che voce ed ossa; ma le ossa, dicono, presero l’aspetto di un sasso.
Narciso, poi, verrà punito dagli dei come aveva preconizzato il veggente Tiresia:
“Richiesto il vate se l’infante avrebbe potuto vedere i tardi tempi di una lunga vecchiaia, rispose: ’Sì, se non vedrà se stesso’”.
Narciso, come è noto, si consumò gli occhi e la vita mirando se stesso nello stagno e alla sua morte si trasformò nel fiore dal calice giallo oro e i petali bianchi.
“Egli posò il capo stanco sulla verde erba, e le tenebre della morte chiusero quegli occhi che contemplavano la bellezza del loro signore”.
Maurizio Bettini ed Ezio Pellizer autori del saggio Il mito di Narciso (Einaudi, 2003) ci ricordano che:
Il mito non è mai esaurito - c’è sempre un’altra versione da leggere, il mito non è mai concluso - c’è sempre un’altra versione da scrivere.
Nei secoli e nei millenni, in forma diversa e con voci diverse – scrivono Bettini e Pellizer - si è tentato di rispondere alla stessa domanda: «Che cosa ha veramente visto, o che cosa cercava di vedere Narciso nello specchio della sua chiara fonte?» Tutti conoscono il mito di Narciso che si riflette nella fonte. O almeno pensano di conoscerlo. Eppure con il mito vale sempre la pena di ricominciare”.
Di Ezio Pellizer e Barbara Castiglioni è interessante approfondire anche il saggio Narciso. La morte, lo specchio, l’amore (Pelago, 2022), recensito da Graziella Atzori su Sololibri.
Recensione del libro
Narciso. La morte, lo specchio, l’amore
di Ezio Pellizer
Il “Trattato del Narciso” di Gide
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Nel 1891 il giovanissimo Andrè Gide (1869-1951), premio Nobel per la Letteratura nel 1947, scrisse il breve saggio Il Trattato del Narciso. Teoria del simbolo.
Il saggio è pubblicato in Italia dalle Edizioni Scientifiche Italiane, con un’introduzione di Carmen Saggiomo, docente di lingua francese nella Seconda Università degli Studi di Napoli.
Per la Saggiomo Il Trattato del Narciso:
Rappresenta un eccellente modo per introdursi al significato profondo del simbolo e del mito nella civiltà umana.
Gide, oltre a Narciso, scrisse altri due saggi dedicati al mito di Prometeo e a quello di Teseo.
L’incipit di Gide risulta spiazzante:
Forse i libri non sono necessari. In principio qualche mito bastava (...) Poi si è voluto spiegare. I libri hanno amplificato i miti – ma qualche mito bastava” . Più avanti lo scrittore, padre spirituale di Camus, scrive: “Voi conoscete la storia. Tuttavia noi la diremo ancora. Tutto è già stato detto; ma, poiché nessuno ascolta, bisogna sempre ricominciare.
E ricominciando - mi permetto di dire - ognuno vive, possiede, ama e plasma il suo Narciso, differente da quello di Pascoli, Rilke, Salomé, Hesse, Wilde e da quello di molti altri.
La Saggiomo sostiene che:
Contrariamente al mito classico, il Narciso gidiano, non si perse, ma si salva. Egli riflettendosi, riflette. Egli sa che baciare la sua immagine è impossibile, perché la lacererebbe. (…) Il Narciso di Gide sa della fine del Narciso classico, e quindi non commette lo stesso errore.
Utilizzando le stesse parole di Gide il suo Narciso è sognante, inquieto e:
Vuole sapere quale forma ha la sua anima (...) Narciso sogna il Paradiso (…) dove “Tutto restava immobile, perché niente si augurava di essere meglio”. Ma c’è un ma, perché “spettatore obbligato d’uno spettacolo il cui solo ruolo è perennemente guardare, si stanca (…)Quest’armonia, col suo accordo sempre perfetto, mi molesta. Un gesto! Un piccolo gesto, per sapere- una dissonanza (…) un po’ d’imprevisto”, come quello di spezzare un ramo dell’albero della conoscenza e far nascere il tempo. Con il tempo nasce l’Uomo “spaventato, androgino che si sdoppia (…) sentendo, con un sesso nuovo, sgorgare in sé il desiderio inquieto per quella metà quasi uguale, questa donna spuntata all’improvviso (...) di cui vorrebbe riappropriarsi.
Come si salva il Narciso di Gide? Guardando e rivelando ciò che vede, come accade per il Poeta e per l’Artista.
Il Poeta è colui che guarda. E che vede? - Il Paradiso. Poiché il Paradiso è dappertutto; non dobbiamo credere alle apparenze. Le apparenze sono imperfette: esse balbettano la verità che nascondono; il Poeta deve capire a volo – poi ridire queste verità.
In una nota al Trattato lo stesso Gide scrive che:
Ogni opera che non riveli è inutile e, per ciò, cattiva. Ogni uomo che non riveli è inutile e cattivo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il mito di Narciso: un’analisi da Ovidio a Gide
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