“Il giorno dei morti” è una poesia scritta da Giovanni Pascoli nel 1891, la prima di alcune liriche isolate a fungere da elemento di connessione tra due sezioni della raccolta Myricae.
Componimento drammaticamente e profondamente intimista, a parte l’insolita lunghezza di 212 versi, presenta le tipiche e quasi ossessive tematiche pascoliane della morte e del nido familiare spezzato.
La partecipazione emotiva dell’autore è come sempre fortissima e ad ogni passo riemerge, prepotente e insostenibile, tutto il peso del suo tragico vissuto funestato da perdite e lutti.
Per celebrare la ricorrenza del 2 Novembre, analizziamo il testo de Il giorno dei morti.
Il giorno dei morti: testo e parafrasi della poesia di Pascoli
Testo | Parafrasi |
Io vedo (come è questo giorno, oscuro!), vedo nel cuore, vedo un camposanto con un fosco cipresso alto sul muro. E quel cipresso fumido si scaglia allo scirocco: a ora a ora in pianto sciogliesi l’infinita nuvolaglia. O casa di mia gente, unica e mesta, o casa di mio padre, unica e muta, dove l’inonda e muove la tempesta; o camposanto che sì crudi inverni hai per mia madre gracile e sparuta, oggi ti vedo tutto sempiterni e crisantemi. A ogni croce roggia pende come abbracciata una ghirlanda donde gocciano lagrime di pioggia. Sibila tra la festa lagrimosa una folata, e tutto agita e sbanda. Sazio ogni morto di memorie, posa. Non i miei morti. Stretti tutti insieme, insieme tutta la famiglia morta, sotto il cipresso fumido che geme, stretti così come altre sere al foco (urtava, come un povero, alla porta il tramontano con brontolìo roco) piangono. La pupilla umida e pia ricerca gli altri visi a uno a uno e forma un’altra lagrima per via. Piangono, e quando un grido ch’esce stretto in un sospiro, mormora, Nessuno!... cupo rompe un singulto lor dal petto. Levano bianche mani a bianchi volti, non altri, udendo il pianto disusato, sollevi il capo attonito ed ascolti. Posa ogni morto; e nel suo sonno culla qualche figlio de’ figli, ancor non nato. Nessuno! i morti miei gemono: nulla! — O miei fratelli! — dice Margherita, la pia fanciulla che sotterra, al verno, si risvegliò dal sogno della vita: — o miei fratelli, che bevete ancora la luce, a cui mi mancano in eterno gli occhi, assetati della dolce aurora; o miei fratelli! nella notte oscura, quando il silenzio v’opprimeva, e vana l’ombra formicolava di paura; io veniva leggiera al vostro letto; Dormite! vi dicea soave e piana: voi dormivate con le braccia al petto. E ora, io tremo nella bara sola; il dolce sonno ora perdei per sempre io, senza un bacio, senza una parola. E voi, fratelli, o miei minori, nulla!... voi che cresceste, mentre qui, per sempre, io son rimasta timida fanciulla. Venite, intanto che la pioggia tace, se vi fui madre e vergine sorella: ditemi: Margherita, dormi in pace. Ch’io l’oda il suono della vostra voce ora che più non romba la procella: io dormirò con le mie braccia in croce. Nessuno! — Dice; e si rinnova il pianto, e scroscia l’acqua: un impeto di vento squassa il cipresso e corre il camposanto. — O figli — geme il padre in mezzo al nero fischiar dell’acqua — o figli che non sento più da tanti anni! un altro cimitero forse v’accolse, e forse voi chiamate la vostra mamma, nudi abbrividendo sotto le nere sibilanti acquate. E voi le braccia dall’asil lontano a me tendete, siccome io le tendo, figli, a voi, disperatamente invano. O figli, figli! vi vedessi io mai! io vorrei dirvi che in quel solo istante per un’intera eternità v’amai. In quel minuto avanti che morissi, portai la mano al capo sanguinante, e tutti, o figli miei, vi benedissi. Io gettai un grido in quel minuto, e poi mi pianse il cuore: come pianse e pianse! e quel grido e quel pianto era per voi. Oh! le parole mute ed infinite che dissi! con qual mai strappo si franse la vita viva delle vostre vite. Serba la madre ai poveri miei figli: non manchi loro il pane mai, nè il tetto, nè chi li aiuti, nè chi li consigli. Un padre, o Dio, che muore ucciso, ascolta: aggiungi alla lor vita, o benedetto, quella che un uomo, non so chi, m’ha tolta. Perdona all’uomo, che non so; perdona: se non ha figli, egli non sa, buon Dio... e se ha figlioli, in nome lor perdona. Che sia felice; fagli le vie piane; dagli oro e nome; dàgli anche l’oblio; tutto: ma i figli miei mangino il pane. Così dissi in quel lampo senza fine; Vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno, dalla più grandicella alle piccine. Spariva a gli occhi il mondo fatto vano. In tutto il mondo più non era alcuno. Udii voi soli singhiozzar lontano — Dice; e più triste si rinnova il pianto; più stridula, più gelida, più scura scroscia la pioggia dentro il camposanto. — No, babbo, vive, vivono — Chi parla? Voce velata dalla sepoltura, voce nuova, eppur nota ad ascoltarla, o mio Luigi, o anima compagna! come ti vedo abbrividire al vento che ti percuote, all’acqua che ti bagna! come mutato! sembra che tu sia un bimbo ignudo, pieno di sgomento, che chieda, a notte, al canto della via. — vivono, vive. Non udite in questa notte una voce querula, argentina, portata sino a noi dalla tempesta? È la sorella che morì lontano, che in questa notte, povera bambina, chiama chiama dal poggio di Sogliano. Chiama. Oh! poterle carezzare i biondi riccioli qui, tra noi; fuori del nero chiostro, de’ sotterranei profondi! Un’altra voce tu, fratello, ascolta; dolce, triste, lontana: il tuo Ruggiero; in cui, babbo, moristi un’altra volta. Parlano i morti. Non è spento il cuore nè chiusi gli occhi a chi morì cercando, a chi non pianse tutto il suo dolore. E or per quanto stridula di vento ombra ne dividesse, a quando a quando udrei, come da vivo, il tuo lamento, o mio Giovanni, che vegliai, che ressi, che curai, che difesi, umile e buono, e morii senza che ti rivedessi! Avessi tu provato di quell’ora ultima il freddo, e or quest’abbandono, gemendo a noi ti volgeresti ancora — — Ma se vivete, perchè, morti cuori, solo è la nostra tomba illacrimata, solo la nostra croce è senza fiori? — Così singhiozza Giacomo: poi geme: — Quando sola restò la nidïata, Iddio lo sa, come vi crebbi insieme: se con pia legge l’umili vivande tra voi divisi, e destinai de’ pani il più piccolo a me, ch’ero il più grande; se ribevvi le lagrime ribelli per non far voi pensosi del domani, se il pianto piansi in me di sei fratelli; se al sibilar di questi truci venti, al rombar di quest’acque, io suscitava la buona fiamma d’eriche e sarmenti; e io, quando vedea rosso ogni viso, e più rossi i più piccoli, tremava sì, del mio freddo, ma con un sorriso. Ma non per me, non per me piango: io piango per questa madre che, tra l’acqua, spera, per questo padre che desìa, nel fango; per questi santi, o fratel mio, che vivi; di cui morendo io ti dicea... ma era grossa la lingua e forse non udivi — Io vedo, vedo, vedo un camposanto, oscura cosa nella notte oscura: odo quel pianto della tomba, pianto d’occhi lasciati dalla morte attenti, pianto di cuori cui la sepoltura lasciò, ma solo di dolor, viventi. L’odo: ora scorre libero: nessuno può risvegliarsi, tanto è notte, il vento è così forte, il cielo è così bruno. Nessuno udrà. La povera famiglia può piangere. Nessuno, al suo lamento, può dire: Altro è mio figlio! altra è mia figlia! Aspettano. Oh! che notte di tempesta piena d’un tremulo ululo ferino! Non s’ode per le vie suono di pesta. Uomini e fiere, in casolari e tane, tacciono. Tutto è chiuso. Un contadino socchiude l’uscio del tugurio al cane. Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno in cerchio, avvolti dall’assidua romba. Aspetteranno, ancora, aspetteranno. I figli morti stanno avvinti al padre invendicato. Siede in una tomba (io vedo, io vedo) in mezzo a lor, mia madre. Solleva ai morti, consolando, gli occhi, e poi furtiva esplora l’ombra. Culla due bimbi morti sopra i suoi ginocchi. Li culla e piange con quelli occhi suoi, piange per gli altri morti, e per sè nulla, e piange, o dolce madre! anche per noi; e dice: — Forse non verranno. Ebbene, pietà! Le tue due figlie, o sconsolato, dicono, ora, in ginocchio, un po’ di bene. Forse un corredo cuciono, che preme: per altri: tutto il giorno hanno agucchiato, hanno agucchiato sospirando insieme. E solo a notte i poveri occhi smorti hanno levato, a un gemer di campane; hanno pensato, invidïando, ai morti. Ora, in ginocchio, pregano Maria al suon delle campane, alte, lontane, per chi qui giunse e per chi resta in via, là; per chi vaga in mezzo alla tempesta, per chi cammina, cammina, cammina; e non ha pietra ove posar la testa. Pietà pei figli che tu benedivi! In questa notte che non mai declina, orate requie, o figli morti, ai vivi! — O madre! Il cielo si riversa in pianto oscuramente sopra il camposanto. |
Io vedo (come è questo giorno, tetro!), vedo nel cuore, vedo un cimitero con un cupo cipresso alto sul muro. E quel cipresso tra la nebbia si oppone al vento che lo squassa con violenza: a ora a ora si scioglie in pianto la nuvolaglia che sembra non finire mai. O casa della mia famiglia, unica e triste, o casa di mio padre, unica e silenziosa, dove sembra che i morti siano abbandonati alle intemperie O cimitero che inverni così rigidi riservi a mia madre gracile e smunta, oggi (2 Novembre) ti vedo ricoperto di fiori semprevivi e crisantemi. A ogni croce rossa di ruggine pende come abbandonata una ghirlanda da cui gocciano lacrime di pioggia. Sibila in questo giorno di festa mesta una folata di vento, e tutto agita e scombina. Ogni morto, sazio di memorie, riposa. Ma non i miei morti. Stretti tutti insieme, insieme tutta la famiglia morta, sotto il cipresso umido che si lamenta, stretti così come altre sere al focolare (urtava, come un povero, alla porta la tramontana con rumore sordo), piangono. Gli occhi bagnati di lacrime e pii ricercano gli altri visi a uno a uno e formano un’altra lacrima per via. Piangono, e quando un grido di disperazione che esce stretto in un sospiro, mormora, Nessuno!... cupo irrompe un sussulto dal loro cuore. Alzino i loro visi e le loro mani pallide affinché, ascoltando il pianto desueto, qualcuno dei viventi sollevi il capo attonito e li ricordi. Riposa ogni morto; e nel suo sonno eterno culla qualche figlio dei figli, non ancora nato. Nessuno! I morti miei gemono: nulla! (sono stati dimenticati). - O miei fratelli! - dice Margherita (sorella di Pascoli), la pia fanciulla che sotto terra, in primavera, si risvegliò dal sogno della vita. - O miei fratelli, che essendo ancora in vita potete godere della luce del sole per vedere la quale mi mancano per sempre gli occhi, desiderosi della dolce luce del mattino; O miei fratelli! Nella notte oscura, quando il silenzio vi opprimeva, e ingannevole l’oscurità suscitava immagini paurose; io entravo delicatamente nel vostro letto; Dormite! Vi dicevo soavemente e con dolcezza, voi dormivate con le braccia al petto. E ora, io tremo da sola nella bara; il dolce sonno ora perdei per sempre (perché il sonno è dei vivi) io, senza un bacio, senza una parola. E voi, miei fratelli più piccoli, nulla!... Voi che avete continuato a vivere e siete cresciuti, mentre qui, per sempre, io son rimasta timida fanciulla. Venite, adesso che non piove, se per voi sono stata madre e vergine sorella : ditemi: Margherita, riposa in pace. Che io senta il suono della vostra voce ora che la tempesta è più rumorosa: io dormirò con le mie braccia in croce. Nessuno! - Dice; e si rinnova il pianto, e scroscia la pioggia: un vento impetuoso squassa il cipresso e percorre il cimitero. - O figli - geme il padre nel fragore della pioggia - O figli che non sento più da tanti anni! Un altro cimitero forse vi accolse e forse voi chiamate la vostra mamma, nudi rabbrividendo sotto le nere piogge rumorose. E voi le braccia dall’asilo lontano a me tendete, così come io le tendo a voi disperatamente senza successo. O figli, figli! Vi vedessi io mai! Io vorrei dirvi che nell’istante prima di morire per un’intera eternità vi amai. Nell’istante prima che morissi, portai la mano al capo sanguinante, e vi benedissi tutti, o figli miei. Gridai in quell’attimo, e poi mi pianse il cuore: come pianse e pianse! e quel grido e quel pianto erano per voi. Oh! Le parole mute ed infinite che dissi! Con quale strappo terribile si infranse la vita viva (felice) delle nostre vite. Preserva la madre ai miei poveri figli, non manchi mai loro il cibo, una casa, né chi li aiuti, né chi dia loro buoni consigli. O Dio, ascolta un padre che muore ucciso: aggiungi alla loro vita, o benedetto, quella che un uomo sconosciuto mi ha tolta. Perdona l’uomo che non conosco, perdona: se non ha figli, egli non sa cosa significhi lasciarli soli, buon Dio... e se invece li ha, perdonalo in nome loro. Che sia felice, rendigli facile la vita; dagli ricchezza e fama; dagli anche la dimenticanza del rimorso, tutto: ma i miei figli abbiano sempre da mangiare. Così dissi l’attimo prima di morire; vi chiamai, muto, esangue, a uno a uno, dalla più grande alle più piccine. Spariva il mondo davanti ai miei occhi. In tutto il mondo non c’era più nessuno. Sentii solo voi singhiozzare da lontano. Parla; e il pianto si rinnova più piano più stridula, più gelida, più scura scroscia la pioggia dentro il cimitero. - No, babbo, vive, vivono - Chi parla? Voce velata dalla sepoltura, voce mutata, eppure già sentita O mio Luigi, o anima compagna! Come ti vedo rabbrividire al vento che ti percuote, alla pioggia che ti bagna! Come sei cambiato! Sembra che tu sia un bimbo nudo, pieno di sgomento, che chiede l’elemosina di notte all’angolo della via! - Vivono, vive. Non udite in questa notte una voce lamentosa, cristallina, portata sino a noi dalla tempesta? è la sorella (Carolina) che morì lontano, che in questa notte, povera bambina, chiama chiama dal cimitero del poggio di Sogliano. Chiama. Oh! Potessimo ancora accarezzarle i biondi capelli qui, tra noi: fuori dalla cupa tomba! Ascolta un’altra voce, fratello (Giacomo): dolce, triste, lontana; il tuo Ruggiero; la cui morte, papà, fece morire te una seconda volta (il nipote era stato chiamato come il nonno) Parlano i morti. Non è spento il cuore né chiusi gli occhi a chi morì cercando giustizia, a chi non pianse tutto il suo dolore. E ora, per quanto l’ombra della morte ci divide, di quando in quando potrei ascoltare, come da vivo, la tua voce, O mio Giovanni, che vegliai, che tenni in braccio, che curai, che difesi, umile e buono, e che non potetti rivedere prima di morire! (Giovanni venne allontanato dal capezzale di Luigi quando si capì che quest’ultimo stava morendo) Avessi tu provato il gelo di quell’ultimo istante, e or quest’abbandono, gemendo a noi ti volgeresti ancora. - - Ma se siete ancora vivi, perché, morti cuori, solo la nostra tomba è senza lacrime, solo la nostra croce è senza fiori? - Così singhiozza Giacomo: poi piange: - Quando la famiglia restò senza genitori, Iddio lo sa, come mi presi cura di voi; se con giustizia l’umile cibo tra voi divisi, e destinai il più piccolo dei pani a me che ero il più grande; se respinsi le lacrime ribelli per non impensierire voi del domani, se trattenni dentro di me il pianto per la scomparsa di sei fratelli; se al sibilare di questi truci venti, al rombare di queste tempeste, io accendevo il fuoco con rami di eriche e tralci di vite e io, quando vedevo arrossarsi per il freddo ogni viso, e più rossi quelli dei più piccoli, tremavo sì del freddo che sentivo, ma con il sorriso: Ma non per me, non per me piango; io piango per questa madre che, sotto la pioggia, spera, per questo padre che spera, nel fango per questi santi, o fratello mio, che vivi; di cui morendo, io volevo parlarti ma l’agonia me lo impediva e forse non udivi. Io vedo, vedo, vedo un cimitero, una cosa oscura nella notte buia: odo quel pianto della tomba, pianto di occhi lasciati dalla morte consapevoli delle vicende umane pianto di cuori cui la sepoltura lasciò viventi ma solo di dolore. Sento il pianto, ora scorre libero: nessuno può risvegliarsi, tanto è notte, il vento è così forte, il cielo è così scuro. Nessuno sentirà. La sfortunata famiglia può piangere. Nessuno, al suo lamento, può dire: altro è mio figlio! Altra è mia figlia! Aspettano. Oh! Che notte di tempesta carica di un tremolante ululo ferino! Non s’ode per le vie rumore di passi. Uomini e animali, in casolari e tane, tacciono. Tutto è chiuso. Un contadino socchiude l’uscio del tugurio al cane. Piangono. Io vedo, vedo, vedo. Stanno in cerchio, avvolti dall’incessante tumulto della tempesta. Aspetteranno, ancora, aspetteranno. I figli morti stanno avvinti al padre la cui morte non è mai stata vendicata. Siede in una tomba (io vedo, io vedo) in mezzo a loro, mia madre. Solleva gli occhi ai morti consolandoli e poi furtiva esplora la tomba. Culla due bimbi morti (Carolina e Ida) sopra alle sue ginocchia. Li culla e piange con quei suoi occhi, piange per gli altri morti, e nulla per sé, e piange, o dolce madre! anche per noi; e dice: - Forse non verranno. Ebbene, pietà! le tue due figlie, o sconsolato, pregano per i defunti. Forse cuciono un corredo, che preme: per altri: tutto il giorno hanno cucito, hanno cucito sospirando insieme (le sorelle Ida e Maria). E solo quando si è fatta notte hanno alzato i poveri occhi stanchi a un rumore di campane; hanno pensato, invidiando la pace della morte. Ora, in ginocchio, pregano Maria al suono delle campane, alte, lontane, per chi (al cimitero) giunse e per chi resta in vita là; per chi vaga tra i dolori della vita per chi cammina, cammina, cammina, e non trova luogo ove riposare. Pietà per i figli che tu benedivi! In questa notte che non finisce mai, pregate requie, O figli morti, ai vivi! O Madre! Il cielo si riversa in pianto oscuramente sopra il cimitero (la pioggia che scende è come le lacrime). |
“Il giorno dei morti” di Pascoli: analisi metrica e figure retoriche
Il giorno dei morti è una poesia in terzine di endecasillabi, con rime a schema ABA, CBC, legate due a due a partire dalla seconda rima; si chiude con un distico a rima baciata.
Per quanto riguarda le figure retoriche, l’abbondanza di metafore, assonanze e sinestesie, contribuisce a rendere la musicalità del ritmo, nonché la tipica tendenza della poetica pascoliana a raccontare attraverso continui e suggestivi richiami visivi.
Presenti anche, fra l’altro, un ossimoro (parole mute) e un latinismo (procella).
Commento e analisi critica de Il giorno dei morti: il nido familiare spezzato e la comunione fra vivi e morti
È un 2 Novembre particolarmente grigio e battuto da una pioggia incessante quello in cui Giovanni Pascoli ripensa ai suoi cari scomparsi e trova l’ispirazione per comporre Il giorno dei morti, una delle poesie più celebri di Myricae.
Le tematiche sono quelle assillanti e angosciose della perdita, del lutto e del nido spezzato, ma stavolta trattate da un’angolazione diversa, lasciando che a "parlare" siano gli stessi cari "sotterra", che l’autore immagina riuniti e stretti in un abbraccio al tempo stesso fisico e simbolico, lamentarsi per lo stato di abbandono in cui vengono lasciati.
Le voci dello sfortunato patriarca Ruggero e quelle delle sorelle e dei fratelli defunti si rincorrono incalzanti generando un lamento corale di infinito struggimento, capace di suscitare enorme commozione nel lettore.
Si ripercorrono le tragedie che hanno segnato la famiglia Pascoli e l’animo di Giovanni per sempre, dall’assassinio invendicato del padre alla morte della madre fino a quelle precocissime di Giacomo, Ida e Carolina, perdite enormi, insopportabili, incolmabili, che il poeta, nel corso della sua breve esistenza, non riesce mai né ad elaborare né a superare.
Nella giornata che li commemora, egli ha l’impressione di percepirne le voci e le lamentele, li vede cercarsi ed accogliersi l’un l’altro, interrogarsi sul destino dei cari ancora in vita.
La morte è entrata troppo presto e con inaudita violenza nella casa, spezzando i legami più importanti in un’età nella quale accettarlo è impossibile e provocando un dolore lacerante che nel poeta si perpetua e si trascina inalterato, se non addirittura aumentato, sino alla fine dei suoi giorni.
Da allora l’esistenza dei superstiti, Giovanni, Ida e Mariù, è diventata una "notte che non finisce mai" nella quale, contrariamente a quanto avviene di solito, sono i vivi a chiedere ai morti di pregare per loro.
Ma in questo quadro desolante è l’amore ad aprire uno squarcio di speranza: attraverso di esso il ricordo di chi non c’è più diventa eterno e, in qualche modo e specialmente nel cuore di chi resta, si continua ad esserci.
Esiste un’intensa comunione spirituale fra vivi e morti, un rapporto incorporeo e speciale che non finisce al cimitero, anzi, proprio qui Pascoli ritrova e ricostituisce la casa distrutta, il nido spezzato nell’infanzia: il camposanto è la nuova e definitiva dimora dei suoi familiari e saperli riuniti gli è di grande conforto.
L’amore è l’unico antidoto contro la morte e il dolore: se amiamo e ricordiamo, la morte non esiste.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il giorno dei morti” di Giovanni Pascoli: analisi della poesia dedicata al 2 novembre
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