

Hassan e il genocidio
- Autore: Raffaele Oriani
- Genere: Politica ed economia
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2025
Nel tempo della post-verità dubitare di tutto ciò che apprendiamo dai media diventa una buona pratica di igiene mentale, un essenziale esercizio di scetticismo quotidiano nel quale ci aiuta Hassan e il genocidio (People Publishing, 2025), un libro in cui dialogano le voci di due giornalisti, Raffaele Oriani e Alhassan Selmi, arricchito dalle evocative immagini di Marcella Brancaforte, che lo rendono, al contempo, una favola moderna sull’ennesimo, straziante, capitolo del conflitto israelo-palestinese.
È Marcella, illustratrice e docente, a mettere in contatto il giornalista italiano e il collega palestinese: dopo il 7 ottobre 2023, la strage di Hamas e i bombardamenti, lo sterminio che Israele inizia ad attuare, seguito poi dall’assedio di Gaza, si rende subito conto che si tratta di una tragedia che non si sarebbe fermata facilmente, si sente intimamente toccata da questi eventi che non può rinunciare a capire, approfondire, comunicare. Per questo invita Raffaele Oriani a presentare un suo precedente libro – Gaza, la scorta mediatica. Come la grande stampa ha accompagnato il massacro e perché me ne sono chiamato fuori (People, 2024) - nella sua città, mentre nel frattempo conosce, grazie a Chiara Avesani e Matteo Delbò, registi di Erasmus in Gaza, Alhassan Selmi, giornalista palestinese che a quel documentario aveva dato un contributo essenziale con le sue riprese aeree.
Tra il giugno 2024 e il gennaio 2025, si infittisce il dialogo tra Marcella e Hassan, un dialogo sotto le bombe, fatto di domande materne – “Hai mangiato oggi?” “I tuoi stanno bene?” – e di racconti tragici e raccapriccianti; un coraggioso tentativo di resistenza dove alle parole si affiancano anche le raccolte di fondi per i tanti palestinesi che, divisi tra il nord e il sud della striscia di Gaza, vivono “un’esistenza minima, sempre ad assicurarsi di essere ancora in vita”.
Conosciamo la sapienza antica di Hassan, un giovane che a trentadue anni non ha mai smesso di sopravvivere ma che mostra più preoccupazione per la famiglia piuttosto che per sé, ogni giorno sente il freddo della morte che lo sfiora, cammina “sul confine che separa la vita dalla morte, sull’orlo di un abisso senza fine”, anche se ormai ha smesso di avere paura. Sono forse le conversazioni notturne con Marcella a rinfrancarlo almeno un po’, le tavole che lei tratteggia dopo aver ascoltato i suoi racconti, che ritroviamo anche tra i capitoli del libro, dove ai contorni sfumati della tragedia fanno da contraltare le figure nette dei personaggi, con i loro sguardi profondissimi, l’inquietudine e lo spavento ma anche l’energia tanto vitale che non rinunciano a emanare.
In Hassan e il genocidio non c’è, però, solo il racconto intimo di una quotidianità piena di paura e violenza, tra la connessione posticcia di un router che diventa l’unica possibilità di esistere al di fuori della distruzione e una fuga perenne – da Gaza City a Rafah, da Rafah a Khan Younis – ma anche la testimonianza di un reporter che vede i colleghi giornalisti morire uno dopo l’altro, silenziati da quei proiettili che non risparmiano neanche i bambini. I numeri, se ha un qualche senso rendicontare la morte, sono impressionanti, più di duecento in poco più di un anno a fronte dei sessantanove caduti nel secondo conflitto mondiale.
È del governo israeliano la decisione di non mostrare alla stampa internazionale la guerra a Gaza, unica eccezione il giornalismo embedded, incorporato perché
“prima di prendere posto sul mezzo blindato ha già indossato un’imbottitura di versioni accomodanti e verità preconcette”
I reporter palestinesi o arabi che, come Hassan, vivono o operano nella striscia di Gaza, con il loro giubbotto con la scritta Press, diventano invece uno dei bersagli preferiti dei cecchini:
“l’uccisione dei giornalisti non è l’eccezione, ma una regola ferrea inserita in una regola più grande più grande: a Gaza muoiono tutti”
Raffaele Oriani racconta di come la stampa internazionale rimanga indifferente di fronte al genocidio, di come le grandi testate italiane ed europee garantiscano al governo israeliano quella scorta mediatica che, agli occhi dell’Occidente, lo solleva da ogni responsabilità che possa dirsi tale.
Le sue analisi linguistiche smascherano chiaramente tutto l’impegno per non pronunciare mai quella parola proibita – genocidio, appunto – che, ritenuta appropriata dal Comitato speciale delle Nazioni Unite e da organizzazioni come Human Rights Watch, viene sostituita dalla stampa italiana con termini edulcorati quali “operazione”, “intervento”, “blitz”, “i fatti di Gaza”.
E che si tratti di genocidio lo testimoniano non solo studiosi e analisti ma soprattutto le voci terze dei medici che lavorano negli ospedali bombardati, costretti a curare bambini che sempre più spesso, in quindici mesi di guerra, sono diventati, come i giornalisti, bersagli dei cecchini e si sono presentati con ferite di proiettili alla testa.
“Si sa che possediamo solo ciò che nominiamo. E i nostri media sono appassionati di nomi molto più che di pensieri e di approfondimenti. (…) Non so se quello di Gaza sia giuridicamente un genocidio. So che è difficile raccontare una cosa se ci si rifiuta di darle un nome. (…) A differenza di quelli ucraini (…) i massacri di Gaza non hanno colpevoli, quasi nemmeno vittime. A dominare è la fatalità o la motivazione di comodo: che siano scuole, ospedali o accampamenti di fortuna, a essere colpiti sono sempre i centri di “comando e controllo di Hamas”, tutto il resto è sangue collaterale”.
Scritto nel gennaio 2025, all’indomani della tregua strappata a Israele dai mediatori emiratini, e oggi cassata da Donald Trump, Hassan e il genocidio è un realistico e commovente canto a tre voci dove si fondono due diversi diari di guerra, quello di Hassan Selmi, testimone diretto e superstite del genocidio, e quello di Raffaele Oriani, impegnato a disinnescare quella scorta mediatica che, anche in Italia, ha nascosto i crimini di Israele dietro lo spauracchio dell’antisemitismo e di una superiore e impersonale necessità.
Un saggio che mostra quanto sia facile ricadere nell’indifferenza alla quale ogni giorno tenta di condannarci il politically correct, ma anche un invito a restare desti, a partecipare, con i pochi mezzi a nostra disposizione, a un’impresa di resistenza e di libertà, che appare oggi tutt’altro che conclusa.

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