Il nome di Federico De Roberto è invincibilmente legato al titolo del suo libro capolavoro, il romanzo storico I viceré.
Lo scrittore nacque a Napoli centosessantadue anni fa, il 16 gennaio 1861, figlio di un ex ufficiale di stato maggiore e di una nobildonna di origini catanesi.
Oggi De Roberto è considerato il “terzo moschettiere” della triade di autori veristi composta dal fondatore Luigi Capuana e il maestro Giovanni Verga; ma nei suoi ultimi anni si considerava uno scrittore fallito.
“Nulla resterà di me”, disse all’amico Guglielmino in una sera malinconica, mentre era affacciato al balcone della sua abitazione. Era ossessionato dall’idea di scomparire e che la sua arte avesse poco valore: la critica del tempo lo definiva un “dilettante”, individuava nel suo stile “limiti” e “manchevolezze”. Poco importava che lui avesse cercato nella letteratura il senso stesso della vita: la sua opera era figlia di un’epoca di crisi, e il suo nome fu relegato in un limbo oscuro da coloro che stabiliscono le sorti di un autore e dalle spietatezza delle logiche editoriali e di mercato.
La fama di Federico De Roberto, del resto, era adombrata dal successo di Verga, per cui lui stesso nutriva un’autentica venerazione. In realtà lo scrittore - che del catanese Verga era anche conterraneo - aveva arricchito la sua scrittura di uno stratagemma narrativo raffinato per l’epoca: l’indagine psicologica che poneva la sua opera in bilico tra la corrente del Verismo - ormai al tramonto - e quella nascente del Decadentismo. Il suo era un “realismo soggettivo”, che non mirava a ritrarre semplicemente un cambiamento sociale, collettivo e impersonale, intendeva concentrarsi sul cammino dell’uomo nella storia. La sua poetica era un’anticipazione della sensibilità pirandelliana. Ma come tutti gli innovatori, Federico De Roberto non fu capito.
L’immortalità del suo nome sarebbe per sempre rimasta legata alla fortuna dell’opera, I vicerè, nella quale de Roberto aveva racchiuso un intero mondo raccontando ascesa e declino di una ricca famiglia siciliana sullo sfondo del risorgimento meridionale.
Scopriamone vita e opere.
Federico De Roberto: la vita e le opere
L’infanzia di Federico De Roberto fu segnata da un avvenimento tragico: la prematura scomparsa del padre, don Federico, che morì travolto da un convoglio sui binari della stazione di Piacenza. In seguito al dramma la famiglia De Roberto, composta ormai soltanto da Federico, la madre e il fratello Diego, si trasferì a Catania, terra d’origine materna.
La presenza della madre, la nobildonna Marianna Asmundo Ferrara, sarà una costante nella vita di Federico De Roberto. La donna, traumatizzata dalla perdita del marito, riversò sul figlio una gelosia possessiva che non darà lui mai requie.
A tredici anni De Roberto si iscrive all’istituto catanese “Carlo Gemellaro” dove intraprende studi di fisica e matematica. Terminati gli studi superiori si iscrive alla facoltà universitaria di Scienze Fisiche con l’intento di proseguire la specializzazione nelle materie scientifiche. Al terzo anno la visione del giovane Federico subisce un brusco cambio di prospettiva: di colpo decide di abbandonare gli studi in matematica per approfondire le materie umanistiche, in particolare lo studio del latino, per cui nutre una passione crescente. Inizia a studiare i classici, a dedicarsi alle letture e a collaborare per diverse riviste.
Il 1881 è l’anno del suo esordio letterario: pubblica il saggio critico Giosuè Carducci e Mario Rapisardi. Polemica per l’editore Giannotta in cui analizza il contrasto insorto tra i due grandi poeti.
In questi anni De Roberto amplia le proprie conoscenze in ambito letterario ed editoriale, viaggiando tra Roma e Milano e incontrando i maggiori esponenti della Scapigliatura.
Lavora come consulente editoriale e collabora per diverse riviste, tra cui ricordiamo Fanfulla della domenica e Il Don Chisciotte per cui scrive recensioni, articoli di storia, geografia, scienza, arte, politica e costume. Sino al 1883 si firmerà con lo pseudonimo di Hamlet, preferendolo al suo nome vero.
La sua crescente “indipendenza letteraria” è tuttavia minata dalla madre che frequentemente lo richiamerà a casa, a Catania, utilizzando come pretesto la sua salute inferma. Marianna Asmundo Ferrara vivrà per ben novant’anni e il figlio la accudirà amorevolmente sino alla morte, avvenuta nel 1926, sacrificandole tutto sé stesso.
Il rapporto morboso tra De Roberto e la madre è testimoniato anche dalla loro lunga corrispondenza epistolare che rivela anche il sottile rancore che l’autore stesso nutriva nei confronti di questa madre-tiranna che continuamente lo richiamava a sé. Più forte del rancore era tuttavia la sua estrema devozione di figlio che, sino alla fine, ebbe la meglio su ogni risentimento. A ogni ritorno a casa, nella Sicilia provinciale, Federico alterna una fuga: a Milano, Roma, Firenze, le città della sua libertà.
Nel 1888 De Roberto pubblica a Milano, presso i Fratelli Treves, la raccolta di quattrodici novelle intitolata Documenti umani. Nel 1891 dà alle stampe il suo primo romanzo, Ermanno Raeli, che però non viene ben accolto dalla critica nella quale la narrazione - fortemente autobiografica e intimistica - suscita alcune perplessità. Il protagonista era un uomo appassionato di poesia e filosofia che vive una sofferta storia d’amore che si concluderà con il suicidio. Il tema era forse troppo moderno per l’epoca, anticipava uno stile di narrazione sveviano che sarebbe stato ben accolto nel Novecento della “crisi dell’Io”.
Segue nel 1891 L’illusione, in cui narra la storia di Teresa Uzeda Uffredi, nipote della celebre Teresa che aprirà la narrazione de I vicerè.
Terminata la stesura dell’Illusione ha infatti l’ispirazione per la scrittura di ciò che sarà il suo capolavoro, I viceré è considerato un capolavoro del Verismo, che nella concezione iniziale doveva essere:
La storia d’una gran famiglia, la quale deve essere composta di quattordici o quindici tipi, tra maschi e femmine, uno più forte e stravagante dell’altro.
L’opera, il cui titolo originale era Vecchia razza, doveva rappresentare il decadimento morale e spirituale di una stirpe. De Roberto pubblicherà il libro a Milano, nel 1894, ma I vicerè non ottiene il successo sperato. Il naturalismo era un genere ormai in declino e il tono pessimistico e cupo del romanzo non giovò alla sua fortuna in un’epoca in cui in Italia scorreva il fervore dello spirito nazionalistico.
Nel maggio del 1897, nel salotto milanese di casa Borromeo, De Roberto conosce una persona che avrà un ruolo fondamentale nella sua vita: si tratta di Ernesta Valle, suo grande amore. La donna era sposata con l’avvocato siciliano Guido Ribera, ma i due intrattennero una relazione clandestina durata dieci anni. La loro passione è custodita nell’intenso carteggio amoroso che conta quasi più di ottocento lettere, nella quale la donna era nascosta dietro il soprannome affettuoso di “Nuccia”.
Quello stesso anno De Roberto viene richiamato di nuovo a Catania dalla madre e, complice l’insuccesso letterario e i pareri negativi della critica, lo scrittore inizia a vivere un’esistenza sempre più ritirata e a diradare i suoi viaggi.
Federico De Roberto morì a Catania il 26 luglio 1927, a soli sessantasei anni. Era morto esattamente un anno dopo la sua amata-odiata-venerata madre per cui aveva sacrificato tutto, dall’amore alla carriera. Era morto considerandosi uno scrittore fallito, destinato a svanire nelle copie destinate al macero: invece la sua opera vive ancora e il suo nome oggi è legato alla fama di un unico romanzo immortale.
La pubblicazione de I viceré
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Pubblicato a Milano dall’editore Galli nel 1894, dopo una stesura lunga e difficoltosa, I viceré è considerato un capolavoro del Verismo. De Roberto dedicò all’opera un’attenzione scrupolosa e maniacale, rivedendone costantemente le fonti documentarie. Secondo gli studiosi la cura morbosa che dedicò all’opera minò la sua salute e gli provocò un esaurimento nervoso.
Il libro narra la saga familiare degli Uzeda di Francalanza attraverso il succedersi delle generazioni, dal 1855 al 1882. La storia si snoda tra meschinità, avidità, sete di potere e alterne fortune. In queste pagine De Roberto intendeva rappresentare la decadenza dell’antico sistema nobiliare, che ora cedeva il passo al nuovo. La stirpe degli Uzeda infatti discendeva dai Vicerè spagnoli giunti a Catania nel Trecento che si stabilirono sull’isola.
Sembra che De Roberto per costruire la sua saga storica si fosse ispirato al casato nobiliare dei Paternò e, in particolare, alla figura del Marchese di San Giuliano, sul quale è modellato il protagonista Consalvo Uzeda, ultimo rampollo della stirpe, che cerca di tagliare i ponti con la famiglia per andare lontano e realizzare il suo sogno. Riuscirà a essere letto deputato, ma non sfuggirà a un destino di sciagure e di lutti.
Recensione del libro
I Viceré
di Federico De Roberto
La storia della decadenza morale della famiglia siciliana è ambientata sullo sfondo del Risorgimento italiano, dagli anni dei moti rivoluzionari sino all’unificazione. Il filtro di lettura dell’opera è improntato a un profondo pessimismo che, secondo De Roberto, era utile per spiegare l’essenza più vera delle cose. La concezione finale è infatti che l’ordine sociale e politico non muterà mai.
I vicerè comanderanno sempre: prima con la violenza, la sopraffazione, infine con l’inganno e la simulazione.
La concezione stessa della Storia che trapela dalle pagine è quella di una “grande illusione collettiva” che sfugge a qualsiasi disegno razionale dell’umanità. L’uomo spera sempre in un possibile miglioramento, ma è destinato a essere deluso.
In questo il pensiero di Federico De Roberto non è distante da quello del sommo Giacomo Leopardi, cui lo scrittore si dedicò con smisurato amore nell’ultima parte della sua vita dedicandogli una celebre saggio critico-biografico dal titolo Leopardi.
Come il poeta di Recanati, De Roberto credeva che la vita è un’inarrestabile fluire e ogni strenuo tentativo dell’uomo di venire a capo del “caos” esistenziale sia, in definitiva, follia. Nella sua scrittura l’analisi profonda dell’individualità sfocia in una forma di pessimismo etico: una lente quest’ultima attraverso cui leggere I vicerè anche come la delusione per lo sviluppo dei moti risorgimentali che, in fin dei conti, non avevano portato “La Nuova Italia” sperata.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Federico De Roberto: vita e opere dell’autore de “I vicerè”
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