Gabriele D’Annunzio era un amante del Carnevale, lo testimoniano persino i suoi biografi ricordando un carnevale romano in cui il poeta vate trascorse tutto il tempo a gozzovigliare con degli amici abruzzesi giunti, proprio per la festosa occasione, nella capitale.
Forse proprio per queste ragioni è stata attribuita a D’Annunzio una giocosa lirica dal titolo Carnevale; tuttavia nell’Archivio del Vittoriale non si trova conferma di questo scritto tra le opere letterarie d’annunziane, che alcuni affermano - erroneamente - appartenere ai Versi di amore e di gloria (1926).
La lirica presenta una curiosa personificazione del Carnevale, descritto come un uomo intento ad abbuffarsi e festeggiare, che si conclude con un finale di stampo moralistico. Insomma, il dubbio sull’attribuzione a D’Annunzio rimane - di certo questi versi goliardici sono quanto di più lontano esista dai picchi di lirismo dell’Alcyone (1903) - ma meritano comunque un’analisi in occasione della festa in cui appunto “ogni scherzo vale”. Facciamo valere anche questo scherzo, dunque, proponendovi in lettura una poesia giocosa attribuita a Gabriele D’Annunzio.
Scopriamone testo, analisi e commento.
“Carnevale” di Gabriele D’Annunzio: testo
Carnevale vecchio e pazzo
s’è venduto il materasso
per comprare pane e vino
tarallucci e cotechino.
E mangiando a crepapelle
la montagna di frittelle
gli è cresciuto un gran pancione
che somiglia a un pallone.
Beve e beve e all’improvviso
gli diventa rosso il viso
poi gli scoppia anche la pancia
mentre ancora mangia, mangia…
Così muore carnevale
e gli fanno il funerale
dalla polvere era nato
ed in polvere è tornato.
“Carnevale” di Gabriele D’Annunzio: analisi e commento
La poesiola, scritta in forma di filastrocca, presenta uno schema armonico di rime baciate. È interessante notare che, malgrado il tono goliardico e scherzoso dei versi iniziali, la conclusione è amara.
Il Carnevale viene presentato attraverso una puntuale personificazione: un uomo vende persino i beni di prima necessità - come il materasso per dormire - pur di acquistare cibo; ma non si tratta di un povero affamato, il suo è un gesto di avidità. È un uomo grasso che, nonostante la sua mole, continua impunemente ad abbuffarsi con l’abbondanza tipica del periodo carnascialesco (frittelle, taralli, buon vino a volontà); anziché ridere a crepapelle, ecco che “mangia a crepapelle” sino a scoppiarne. La sua golosità smodata prevede, come nel contrappasso dantesco, una giusta punizione: mangia tanto da scoppiare, da essere punito per la sua ingordigia.
E così la poesia si conclude con il funerale dell’uomo goloso, una cerimonia che ha un potente valore metaforico e simbolico, infatti presenta il riferimento “polvere era nato/polvere è tornato”; un chiaro rimando alla formula del Mercoledì delle Ceneri che appunto chiude, liturgicamente, il periodo del Carnevale e apre la Quaresima dopo il Martedì Grasso, la grande festa che conclude i festeggiamenti carnascialeschi:
Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris
“Ricorda, uomo, che polvere sei e polvere ritornerai”, recita la corretta locuzione latina che è anche una sorta di Memento mori.
Il funerale inatteso, posto alla fine della poesia, ha un chiaro intento moralistico: il Carnevale muore, perché è “vecchio e pazzo” e destinato a morire, inoltre il periodo dell’abbondanza non può durare per sempre e, secondo l’ottica sacrificale della religione cattolica, la smodatezza di usi e costumi deve essere punita. Questa è la rivisitazione cristiana del rito pagano del Carnevale che sopravvive ancora, nella sua antica tradizione, in alcune regioni italiane che celebrano persino la “morte del Carnevale”.
Perché il Carnevale muore?
Il funerale del Carnevale è anche una tradizione napoletana: per l’occasione si organizza un vero e proprio corteo, con tanto di carretti ricoperti di veli funebri e fiori, che circola per le strade principali della città.
Alla conclusione del corteo viene bruciato il fantoccio del Carnevale, come rito propiziatorio. Ritornano le ceneri, dunque, che in questo caso hanno un valore vitale, rappresentano una sorta di promessa di resurrezione: il grande falò del Carnevale preannuncia infatti la speranza di altri carnevali futuri. Si tratta di una tradizione di origine medievale (ne parla anche Hugo narrando de La festa dei folli), infatti già nel Medioevo il fantoccio di Carnevale rappresentava i mali e i dolori dell’anno appena trascorso che, bruciando, diveniva di buon augurio per il nuovo.
La poesia Carnevale attribuita a D’Annunzio dunque richiama il significato stesso della festa di origine pagana (festeggiata già nell’Antica Roma con i Saturnalia), il cui funerale rappresentava anche uno sberleffo collettivo di stampo satirico. Il Carnevale è la vita stessa che si prende gioco della morte, si maschera e la trae in inganno facendole una sonora pernacchia.
È un totale sovvertimento delle regole; ma alla fine si ritorna all’ordine e all’amara realtà, come sottolinea la conclusione giocosa - e tuttavia spietata - di questi versi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il Carnevale “vecchio e pazzo” nella poesia attribuita a Gabriele D’Annunzio
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