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Recensioni di libri

Cantos romani di Fernando Acitelli

ES, 2012 - Il passo e lo sguardo poetico di Fernando Acitelli si posa su Roma e scava, con appassionato ma discreto fervore, nel sottosuolo della sua amata città, alla ricerca di memorie e segreti.

Alida Airaghi
Alida Airaghi Pubblicato il 31-10-2016

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Cantos romani

Cantos romani

  • Autore: Fernando Acitelli
  • Categoria: Poesia
  • Anno di pubblicazione: 2012

Diversamente dai “Cantos Pisani” di Pound, così tormentati formalmente, e complessi contenutisticamente, i “Cantos Romani” di Fernando Acitelli (Roma, 1957) si sviluppano in sessantaquattro (LXIV) momenti di pacata e malinconica osservazione del passato storico della città eterna, quasi una celebrazione priva di fasti e retorica: intenerito omaggio – umano, molto umano – a personaggi grandi e minimi che hanno reso l’Urbe, appunto, eterna.

Una Roma esplorata nelle viscere, dall’età imperiale a quella paleocristiana, dal rinascimento all’ottocento, per spingersi fino all’attualità: e raccontata con la fedeltà amorosa che riesce a soprassedere su colpe e tradimenti, per sottolineare invece e decantare virtù e bellezze incontaminabili da qualsivoglia vergogna e volgarità.
L’amico fognarolo, “custode di falde acquifere”, che

“tanto sapeva / di strade, cunicoli, vicoli, intoppi / del sottosuolo”

introduce l’autore nei sotterranei urbani, alla scoperta di urne, monete antiche, cimeli: non solo testimonianze di vite famose, ma reperti di esistenze anonime, di ossa riaffiorate da ipogei fangosi. Di un Aureliano sconosciuto, magari, le cui tracce fisiche sono rimaste più tangibili di quelle del più celebre edificatore della cinta muraria; di un bambino dell’anno 100 d.C.; di qualche vergine adolescente: Sabina, Plotina, Drusilla…

“Se vago tra i reperti, / la diagnosi è sospesa. / Chiunque, a quest’ora, da Lucio Vero a un bimbo / dell’Impero, è più in salvo / di me”.

Storia e cronaca, passato e presente, sacro e profano, vita collettiva e individuale si confondono e compenetrano, in questi versi densi di immagini e di pensiero, vaganti per una Roma concreta dell’oggi, nella sua toponomastica (Via Cairoli, Campo Marzio, il Celio, il Teatro Quirino, Porta Furba, Via Selinunte…), nei suoi bar, nelle basiliche, tra gli sfasciacarrozze e nei negozi eleganti, nei corridoi degli uffici ministeriali o nei cantieri periferici. La città trafficata e pulsante di chi la vive quotidianamente, onorandola o imbrattandola (“Porta Maggiore di notte. / Via Giolitti con le sue mignotte”, “gli operai esibivano fieri il copricapo di giornale”, “un vecchio si distinse per bestemmia”, “L’autista del 409 amava il cambio di marcia”, “i vecchi passeggiano pettinati, rasati / per bene nella penultima finzione”), tra presenze fantasma di attori scomparsi, e gatti, piccioni, levrieri che si muovono tra le rovine.

L’arte antica di Masaccio, Filippino Lippi, Solimena ha lasciato tracce nella pittura novecentesca di De Chirico, Guttuso, Schifano; la politica sporca dei “profittatori di sempre”}» trova un suo riscatto nella solidità pulita degli affetti domestici; le tombe dei martiri cristiani sono velate dalla stessa malinconia che incornicia le sepolture dei parenti più cari. Su tutto aleggia (mai macabro, e piuttosto ineluttabile, fatalistico) lo spirito del dissolvimento, di una fine a cui ogni esistenza, sentimento, gesto, oggetto è inesorabilmente destinata (i corpi di “Tiberio, Giuliano e Decio”, come i mozziconi di sigarette abbandonati sull’orlo dei tombini, o come i peli di barbe e capelli scivolati giù nei lavelli: “Finite dove le rasature degli anni ’30?”). Tuttavia a questo “nulla / da cui veniamo e a cui siamo diretti” Roma, con i suoi millenni di storia, presta uno scenario di fascino particolare, in cui (come suggerisce il postfatore del volume, Raffaele Manica), “non è detto… se siano più morti i vivi o più vivi i morti”. A questa eternità di vita che accoglie presente e passato all’interno delle stesse mura, ai suoi abitanti ignari o colpevolmente disinteressati, Fernando Acitelli rivolge un’accorata e innamorata preghiera:

“Accudite quei sarcofaghi isolati / quelli che come conforto possono contare solo / sulla pioggia, o sul muschio che ne indora / l’incavo, l’intimità già scaldata dal sole. / Ponetegli attorno girandole di lumini, portate / il Natale anche al fanciulletto Aulo / Massimo, al bimbo Publius Aelius Felicissimus, che sia / loro narrato, dunque, il miracolo del Natale / che a quell’epoca non accadeva ed è paura / adesso il considerare questo”.

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Cantos romani

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