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Storia della letteratura

Le poesie di Alda Merini per Marina

“Le briglie d'oro. Poesie per Marina 1984-2004” è una delle ultime raccolte di Alda Merini, icona del nostro Novecento letterario. Ma chi era la Marina del titolo? Scopriamo la sua identità e le poesie a lei dedicate.

Alice Figini
Alice Figini Pubblicato il 20-02-2023
Le poesie di Alda Merini per Marina

Nel 2005 la casa editrice milanese Vanni Scheiwiller pubblica Le briglie d’oro. Poesie per Marina 1984-2004, una delle ultime raccolte poetiche di Alda Merini.
L’antologia contiene centoquattro poesie d’amore inedite dell’autrice. La misteriosa Marina citata nel titolo è Marina Bignotti, editor e curatrice del volume con la quale Merini collaborò per anni.

Il nucleo iniziale delle Poesie per Marina fu infatti composto inizialmente nel 1996, ma per varie ragioni la pubblicazione fu ritardata sino alla tragica morte di Vanni Scheiwiller avvenuta nel 1999. In seguito fu Marina, sua collaboratrice più stretta e fidata, a continuare l’ambizioso “Progetto Merini” voluto dall’editore milanese, che ne aveva lasciato traccia in una cartella scritta a mano.
Le poesie furono raccolte meticolosamente: spesso era Alda Merini stessa a spedirle, oppure a dettarle a Marina che ne trascriveva con attenzione ogni parola.

Nella Premessa del volume la poetessa dei Navigli scriveva espressamente:

Io e Marina abbiamo pensato di raccogliere questi messaggi amorosi, dedicati non tanto alle nostre persone ma alla casa editrice legata al nome di Vanni Scheiwiller e a quell’insegna del Pesce d’oro che ha fatto sognare tanti poeti.

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Merini narra l’intenso legame con l’Insegna del Pesce d’oro e il nome di Scheiwiller, ma non manca di raccontare la sua devozione nei confronti di Marina Bignotti che ha proseguito il progetto dell’editore tenendo fede a una promessa. Merini disse di essere stata letteralmente “affidata a Marina da Vanni”.
E la poetessa per Vanni nutriva una devozione sconfinata, a proposito dell’editore milanese scrisse:

Nelle mani di Vanni Scheiwiller divento un pesce.

Un pesciolino guizzante, cieco e dorato come la poesia che dava il titolo all’intera collana. Quando muore Scheiwiller la poetessa si rimette nelle mani della sua erede, Marina.

In uno dei versi più celebri della raccolta, Merini pone la propria dedica a colei che è stata la terra del suo canto:

Come Cerere e Proserpina, Marina è stata un po’ la terra del mio canto.

Le poesie per Marina e la dedica ai giovani di Merini

La Premessa del volume Le briglie d’oro. Poesie per Marina si concludeva con un post scriptum indirizzato a tutti i giovani. Poche frasi incisive che suonano come una lista di comandamenti. La poetessa dei Navigli si appellava ai giovani perché avessero rispetto della cultura, dei libri e, soprattutto dei poeti. Si poneva ai loro piedi, come un tappeto, promettendo di farli volare sulle ali della fantasia.
Un grande gesto di umiltà e anche un estremo atto di fede compiuto da una donna che sapeva di aver affidato la propria anima alle parole:

Aprite i libri con religione;
non guardateli superficialmente, perché in essi è racchiuso il coraggio dei nostri padri;
soprattutto amate i poeti: essi hanno vangato per voi la terra per tanti anni, non per costruire tombe o simulacri, ma altari. Pensate che potete camminare su di noi come dei grandi tappeti e volare con noi oltre la triste realtà quotidiana.

Scopriamo ora più nel dettaglio le poesie contenute nella raccolta Le briglie d’oro e in particolare le poesie dedicate a Marina.

Le briglie d’oro: le poesie di Alda Merini per Marina

Il nome di Marina ritorna più volte nei versi, evocato, a volte implorato.
In una poesia che reca come titolo proprio quel nome, Merini scrive:

Marina, quando mi manchi mi possiede il demonio.

Un’altra si intitola Marina era un ramo. A lei Merini dedica parole piene di poesia: era lei la sua “adorata figliola, piena di mille grazie”, malgrado la poetessa di figlie ne avesse già due e ben più grandi di Marina.
Forse nella giovinezza dell’assistente Merini rivede una parte di sé che ha perduto per sempre, riafferra un riflesso della sua gioventù attraverso l’astrattezza del dialogo lirico.

Alda Merini e Marina Bignotti si erano conosciute per la prima volta nel 1983, quando la poetessa era in procinto di pubblicare con Scheiwiller una delle sue raccolte più celebri La terra santa.
La Alda Merini incontrata da Bignotti era per tutti la “poetessa del manicomio”; ma non per lei, che le sarebbe stata anche un po’ figlia e l’avrebbe aiutata a tirarsi fuori dai guai in molteplici occasioni, aiutandola persino a uscire da una casa di cura.
Di Merini, la giovane Marina Bignotti riconosce la fragilità, ma anche il carisma e l’imponente statura intellettuale.
Gli ultimi giorni di Alda Merini furono segnati da un forte disagio fisico ed economico: viveva in condizioni quasi di indigenza, proprio lei, che era una delle ultime poetesse vere del nostro Novecento.

Le poesie per Marina possono essere lette come le parole di una madre alla figlia, come una lezione di vita, ma anche come un accorato appello a tutti i giovani che spesso ignorano la transitorietà della propria condizione esistenziale. Sono fatte di levità pura e sembrano contenere qualcosa di luminoso, forse una speranza.

Non si nasce con l’anima, Marina,
l’amore te la mette sulle labbra
col primo bacio e impari ad ascoltare
le rondini che vengono dal cielo.

21 marzo 2000

Marina cara: la poesia di Alda Merini

La figura di Marina ritorna in particolare nella seconda parte della poesia Natale 1989.
La lirica è spesso riportata anche con il titolo Marina cara, quando ne viene ripresa solamente la seconda strofa che di seguito riportiamo:

Marina cara,
la giovinezza ti lambisce le spalle
ed è onerosa come la poesia:
portare la giovinezza
è portare un peso tremendo,
sognare fughe e fardelli d’amore
e amare uomini senza capirne il senso.
Il divario di una musica
il divario della tua fantasia
non possono che prendere spettri,
perciò ogni tanto te ne vai lontana
in cerca di una perduta ragione di vita
in cerca certamente della tua anima.

Sembra essere infatti Marina e non il Natale la vera protagonista della lirica Natale 1989. In questi versi la ragazza appare come un fantasma misteriosamente evocato nell’atmosfera gioiosa e, al contempo, malinconica associata all’attesa di una possibile e vana redenzione. Mentre il mondo intero attende la nascita del bambino divino, ecco che lei si aggira per le strade con l’impeto ansioso di un essere in fuga e possiamo immaginarla prigioniera di un giorno di freddo e di neve, mentre cerca invano sollievo all’angoscia che la invade.
Ricorda un poco l’Esterina di Montale, cantata nella celebre Falsetto, che è minacciata dai vent’anni. La Marina di Merini invece è già stata insidiata dalla giovinezza e ne sopporta a fatica il peso gravoso, definito addirittura “tremendo”.

Quanti dubbi, incomprensioni, amori tumultuosi si agitano nel suo cuore: lei ci appare in fuga da sé stessa. C’è sempre qualcosa di irrisolto nella giovinezza, qualcosa di straziante perché è incompiuto. I giovani sono fatti di mancanze e di desideri e di sogni, di cose immateriali e aeree come la poesia. Marina sembra andare alla ricerca di tutte le cose “leggere e vaganti”, come l’ultima nota di una musica o lo strascico imprendibile di una fantasia. Ciò che più di tutto la contraddistingue è l’immaterialità, la fuggevolezza.
Merini infine la immagina mentre se ne va lontana verso una meta imprecisata, alla ricerca “forse della sua anima”. C’è qualcosa di struggente in quest’ultimo verso, che sa di rimpianto.

Credere nell’anima
è un privilegio ancora di pochi: una forma di autenticità dell’essere che la poetessa e la ragazza di certo ancora condividevano.

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Attraverso la figura di Marina, Alda Merini ci ha donato il ritratto più perfetto, sfumato e irrisolto della giovinezza. Un ritratto in chiaroscuro che nella fuga, nella lontananza, nell’irresolutezza trova la sua ragion d’essere. La giovinezza è una condizione di passaggio, transitoria, ma in questi versi appare in tutta la sua lampante autenticità che la rende immortale: Marina fugge e noi, come direbbe Montale, la guardiamo restando inchiodati a terra.

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