

Così come suggerisce il titolo, al centro di questa poesia c’è la ricordanza di Leopardi che, tornato dopo qualche anno a Recanati, esplora le memorie legate al suo passato. La casa paterna, il paese natale, se stesso in gioventù: questi gli oggetti del ricordo di un Giacomo Leopardi che esplora e misura la sofferenza che è stata inflitta nella vita a lui e a tutti, vittime delle illusioni infrante dell’infanzia e dell’adolescenza.
La poesia è lunghissima, ben 173 endecasillabi sciolti divisi in sette strofe di lunghezza differente.
Vediamo insieme il testo, la parafrasi di “Le ricordanze” e anche l’analisi del testo di questa poesia inserita nei Canti di Leopardi.
“Le ricordanze”: il testo
Di seguito il testo di “Le rimembranze”:
Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
Tornare ancor per uso a contemplarvi
Sul paterno giardino scintillanti,
E ragionar con voi dalle finestre
Di questo albergo ove abitai fanciullo,
E delle gioie mie vidi la fine.
Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l’aspetto vostro
E delle luci a voi compagne! allora
Che, tacito, seduto in verde zolla,
Delle sere io solea passar gran parte
Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
Della rana rimota alla campagna!
E la lucciola errava appo le siepi
E in su l’aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Opre de’ servi. E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spirò la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio!
Ignaro del mio fato, e quante volte
Questa mia vita dolorosa e nuda
Volentier con la morte avrei cangiato.
Nè mi diceva il cor che l’età verde
Sarei dannato a consumare in questo
Natio borgo selvaggio, intra una gente
Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
Argomento di riso e di trastullo,
Son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
Per invidia non già, che non mi tiene
Maggior di se, ma perchè tale estima
Ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
A persona giammai non ne fo segno.
Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
Senz’amor, senza vita; ed aspro a forza
Tra lo stuol de’ malevoli divengo:
Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
E sprezzator degli uomini mi rendo,
Per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola
Il caro tempo giovanil; più caro
Che la fama e l’allor, più che la pura
Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
Senza un diletto, inutilmente, in questo
Soggiorno disumano, intra gli affanni,
O dell’arida vita unico fiore.
Viene il vento recando il suon dell’ora
Dalla torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch’io vegga o senta, onde un’immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Dolce per se; ma con dolor sottentra
Il pensier del presente, un van desio
Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
Quella loggia colà, volta agli estremi
Raggi del dì; queste dipinte mura,
Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
Su romita campagna, agli ozi miei
Porser mille diletti allor che al fianco
M’era, parlando, il mio possente errore
Sempre, ov’io fossi. In queste sale antiche,
Al chiaror delle nevi, intorno a queste
Ampie finestre sibilando il vento,
Rimbombaro i sollazzi e le festose
Mie voci al tempo che l’acerbo, indegno
Mistero delle cose a noi si mostra
Pien di dolcezza; indelibata, intera
Il garzoncel, come inesperto amante,
La sua vita ingannevole vagheggia,
E celeste beltà fingendo ammira.
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d’affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l’onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vóti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m’avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch’al tutto
Consolarmi non so del mio destino.
E quando pur questa invocata morte
Sarammi allato, e sarà giunto il fine
Della sventura mia; quando la terra
Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
Fuggirà l’avvenir; di voi per certo
Risovverrammi; e quell’imago ancora
Sospirar mi farà, farammi acerbo
L’esser vissuto indarno, e la dolcezza
Del dì fatal tempererà d’affanno.
E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d’angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana
Pensoso di cessar dentro quell’acque
La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
Malor, condotto della vita in forse,
Piansi la bella giovanezza, e il fiore
De’ miei poveri dì, che sì per tempo
Cadeva: e spesso all’ore tarde, assiso
Sul conscio letto, dolorosamente
Alla fioca lucerna poetando,
Lamentai co’ silenzi e con la notte
Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
In sul languir cantai funereo canto.
Chi rimembrar vi può senza sospiri,
O primo entrar di giovinezza, o giorni
Vezzosi, inenarrabili, allor quando
Al rapito mortal primieramente
Sorridon le donzelle; a gara intorno
Ogni cosa sorride; invidia tace,
Non desta ancora ovver benigna; e quasi
(Inusitata maraviglia!) il mondo
La destra soccorrevole gli porge,
Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
Suo venir nella vita, ed inchinando
Mostra che per signor l’accolga e chiami?
Fugaci giorni! a somigliar d’un lampo
Son dileguati. E qual mortale ignaro
Di sventura esser può, se a lui già scorsa
Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
O Nerina! e di te forse non odo
Questi luoghi parlar? caduta forse
Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
Che qui sola di te la ricordanza
Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
Questa Terra natal: quella finestra,
Ond’eri usata favellarmi, ed onde
Mesto riluce delle stelle il raggio,
E’ deserta. Ove sei, che più non odo
La tua voce sonar, siccome un giorno,
Quando soleva ogni lontano accento
Del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto
Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
Il passar per la terra oggi è sortito,
E l’abitar questi odorati colli.
Ma rapida passasti; e come un sogno
Fu la tua vita. Ivi danzando; in fronte
La gioia ti splendea, splendea negli occhi
Quel confidente immaginar, quel lume
Di gioventù, quando spegneali il fato,
E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
L’antico amor. Se a feste anco talvolta,
Se a radunanze io movo, infra me stesso
Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
Tu non ti acconci più, tu più non movi.
Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
Van gli amanti recando alle fanciulle,
Dico: Nerina mia, per te non torna
Primavera giammai, non torna amore.
Ogni giorno sereno, ogni fiorita
Piaggia ch’io miro, ogni goder ch’io sento,
Dico: Nerina or più non gode; i campi,
L’aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
Sospiro mio: passasti: e fia compagna
D’ogni mio vago immaginar, di tutti
I miei teneri sensi, i tristi e cari
Moti del cor, la rimembranza acerba.
Parafrasi de “Le ricordanze”
Ecco la parafrasi di “Le ricordanze”:
Belle stelle dell’Orsa, non avrei mai creduto
di tornare a contemplarvi ancora
dopo così tanto tempo come facevo una volta
mentre scintillate nel giardino della casa di mio padre
e parlare con voi dalle finestre della casa
che fu mia quando ero un adolescente
e dove conobbi la fine delle gioie della mia vita.
Quante immagini e quante fantasie
un tempo mi creavo nei pensieri
vedendo voi e le altre stelle
vicine nel cielo!
Quando seduto sul prato,
silenzioso, trascorrevo le mie serata
scrutando il cielo e ascoltando il canto della rana
lontana nei campi.
E la lucciola volava sulle siepi e sulle aiuole
mentre i viali profumati e i cipressi lontani nella selva
sussurravano al vento;
e nella casa paterna risuonavano le voci e il lavoro dei servi.
E quali pensieri immensi e dolci sogni mi ispirò
guardare il mare lontano, e i monti azzurri
che scopro dalla casa e che un giorno sognavo di varcare,
credendo di trovare al di là dei mondi misteriosi
e immaginando per la mia vita una felicità sconosciuta.
Ignaro del mio destino e di quante volte in seguito
avrei scambiato questa vita con la morte senza alcun rimpianto
dolorosa e priva di gioie.
Nemmeno il cuore mi ha fatti cenno del fatto
che sarei stato condannato a consumare la mia giovinezza
in questo verde borgo selvaggio in cui sono nato,
fra gente ignobile e incivile;
per questa gente, la cui voglia di conoscere e di cultura
sono parole strane e spesso oggetto di scherno;
questa gente che mi odia e mi sfugge
non per invidia, poiché non mi ritiene migliore di sè,
ma perchè pensa che migliore mi ritenga io rispetto a loro,
sebbene io non abbia mai dato segno di ciò.
Qui passo i miei anni, nascosto e abbandonato,
senza vita e senza amore,
e tra le persone malevoli divento come non sono mai stato,
aspro e scortese:
qui mi spoglio di pietà e virtù
e disprezzo le persone meschine tra cui vivo;
e intanto se ne va il tempo caro della gioventù,
più caro della gloria e della fama,
più caro della luce pura del giorno e dello stesso vivere:
ti perdo senza aver avuto un attimo di gioia,
inutilmente, in questo inumano soggiorno,
con solo gli affanni come unico fiore nella vita arida.
Viene il vento facendo suonare
le campane della torre del borgo.
E ricordo che questo suono era per me un conforto
quando ero un ragazzino
e durante le notti passate nella camera buia
vegliavo a causa di incubi e inquietudini incessanti,
sospirando perché arrivassero presto il mattino e la luce del giorno.
Non c’è nulla qui che, vedendolo o sententodolo,
non faccia riaffiorare alla mia memoria un’immagine
dalla quale prende vita un ricordare dolce.
Dolce di per sé;
però poi con dolore arriva il pensiero del presente
e un desiderio vano del passato che mi porta a dire:
ho esaurito la mia esistenza.
Quella loggia volta ad ovest
queste pareti affrescate
e i dipinti che raffigurano greggi,
e il sole che sorge sulla campagna solitaria
mi procurano mille diletti
nei momenti di riposo dagli studi
quando, dovunque mi trovassi,
si trovava vicino a me
quella mia capacità di credere nei sogni.
In quelle antiche sale,
al riflesso della neve,
mentre il vento sibilava forte tutt’attorno
a queste ampie finestre,
risuonarono i giochi e le mie grida felici
nel tempo in cui si mostra il duro
pieno di dolcezza, l’indegno mistero della vita
e della realtà non ancora sperimentata e intatta;
e chi è il ragazzo che ancora sogna,
come un innamorato inesperto
una vita che che sarà piena di inganni
e che ammira una bellezza celeste
vista con gli occhi dell’immaginazione.
O speranze, speranze, dolci inganni della mia adolescenza!
Sempre, parlando, io torno a voi;
poiché non so dimenticarvi
per quanto trascorra il tempo,
per quanto anche gli affetti e i pensieri cambino.
Fantasmi, io lo so, sono gloria e onore,
il bene e i diletti solo un puro desiderio.
E sebbene i miei anni siano vuoti,
sebbene oscura e solitaria
sia la mia vita mortale,
so bene che la fortuna ha ben poco da prendersi da me.
Ma, ahimè, ogni volta che vi ripenso,
o mie speranze antiche,
e che penso al mio fantasticare sul futuro
e lo confronto con questa mia vita
così inutile e priva di scopo
e così dolorosa, che solo la morte mi resta
dopo aver sognato grandi speranze
sento stringermi il cuore
e sento che non mi riesco a rassegnare del tutto al mio destino.
E anche quando questa morte che invoco
mi raggiungerà e sarà arrivata
la fine delle mie sventure;
quando per me la terra sarà una valle straniera
e dal mio sguardo il futuro fuggirà;
mi ricorderò sicuramente di voi, mie speranze,
quell’immagine mi farà ancora sospirare,
e renderà amaro il mio aver vissuto invano;
e l’amarezza del ricordo andrà a guastare
perfino il giorno in cui avrò la gioia di cessare di vivere.
E già in adolescenza, in quel primo tumulto di felicità
di angosce di desideri,
più volte ho invocato la morte
e a lungo stetti seduto là, qu quella fontana
pensando di fermare dentro di me l’acqua di quelle speranze,
il dolore di questa mia vita.
Poi, ridotto in pericolo di vita da una malattia,
rimpiansi la mia bella giovinezza
il fiore dei miei giorni così poveri di gioie
che così precocemente appassiva;
e spesso, la sera tardi,
seduto sul letto che, testimone delle mie sofferenze,
scrivendo dolorosamente poesie alla luce fioca,
piansi col silenzio e la notte come unici compagni,
l’energia della vita che mi abbandonava.
E proprio nel momento in cui la vita mancava,
cantai un canto funebre.
Chi può mai ricordarvi senza sospiri,
o primi momento della mia giovinezza,
giorno pieni di lusinghe indescrivibili,
e allorquando al giovane estasiato
sorridono le fanciulle;
tutto intorno ogni cosa sorride a gara,
l’invidia tace e non eccita ancora
oppure è innocua;
e quasi il mondo porge la mano destra in aiuto,
come volesse scusarsi dei suoi errori,
festeggiando il nuovo entrare della vita
e facendogli omaggio
mostra di accettarlo come suo signore e lo chiami?
Ma quei giorni sono fugaci e si sono dileguati come un lampo.
E quale uomo può dire di non aver conosciuto sventura
se ormai è trascorsa la bellezza di quell’età
se il suo bel tempo, la sua giovinezza, ahi la giovinezza
è oramai finita e spenta?
O, Nerina!
E non sento forse questi luoghi che parlano di te?
Sei forse caduta dal mio pensiero?
Dove sei fuggita, che qui di te trovo solo le ricordanze,
o dolcezza mia?
Questa terra mia natale oramai non ti vede più:
quella finestra, dalla quale avevi l’abitudine di parlarmi,
e dove si riflette mesta la luce delle stelle,
è ora deserta.
Dove sei, ora che non sento la tua voce che risuona,
quando ogni parola che mi arrivava dalle tue labbra
da lontano mi faceva impallidire?
Altro tempo.
Furono i tuoi giorno, amore mio dolce.
Passasti.
Il passaggio su questo mondo
ad altri ora è dato in sorte,
l’abitare questi odorati colli.
Ma troppo rapida sei passata
e la tua vita è stata breve quasi come un sogno.
Danzavi, tu, nel cammino della vita.
La gioia risplendeva intorno a te,
e quel fiducioso immaginare intorno all’avvenire
e la luce della giovinezza
splendevano nei tuoi occhi,
quando il destino li ha poi spenti facendoti morire.
Ahi Nerina.
Nel mio cuore ancora regno l’amore antico.
Quando, a volte, vado a feste o a radunanza dico tra me e me:
O Nerina, a feste e radunanze tu non vai più,
e più non ti prepari.
Se maggio torna, e gli amanti
vanno donando canti e ramoscelli alle fanciulle,
dico: per te, Nerina mia,
la primavera non tornerà mai più,
né tornerà l’amore.
Ogni bella giornata, ogni valle in fiore che io guardo,
ogni piacere che io sento, mi dico:
Nerina ora non ne gode più;
i campi e l’aria
lei non guarda più.
Ahi, ti sei passata,
eterno sospiro mio: passasti e il tuo ricordo acerbo
sarà mio compagno in ogni dolce immaginare,
di tutti i miei teneri sentimenti,
di tutti i miei cari e tristi
moti del cuore.
“Le rimembranze”: analisi del testo
In questa poesia si parla di ciò che per Leopardi è l’essenza della poesia stessa: il ricordo. Se qualcosa, qualunque cosa, non suscita un ricordo, allora non è poetica. Un paesaggio, un oggetto, una scorcio: tutto viene poeticizzato se lo si rimembra.
La ricordanza per Leopardi è legata a doppio filo all’indefinito poiché tutti i contorni si sfumano in un ricordo; le cose sembrano lontane e ne rimane solo un’immagine confusa e abbellita, resa più sentimentale grazie agli occhi della fantasia.
In questa poesia viene messo in scena il ritorno a Recanati di Leopardi, articolato in un confronto tra ciò che è passato e ciò che è presente. Una volta giunto nella casa paterna, il poeta fa sue immagini e sensazioni che aveva sopito sulla sua infanzia, periodo pieno di dolci illusioni e di sogni. Quello era il periodo in cui ancora non aveva idea di ciò che sarebbe stata la vita, con un mondo tutto da esplorare ancora davanti.
In questa poesia i suoni la fanno da protagonisti e alla fine, come nella poesia “A Silvia”, compare una figura femminile legata a una triste e prematura scomparsa. In questa poesia il passato di Leopardi viene proiettato e rivangato quasi come su uno schermo grazie all’energia letteraria e poetica del presente.
In questa poesia, così come in altre poesie di Giacomo Leopardi dedicate al ricordo, Leopardi sfrutta moltissimo l’aspetto acustico: nell’”Infinito”, per esempio, Leopardi fa sentire il suono delle stagioni. In questa poesia, invece, si sentono i suoni del tempo.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Le ricordanze”: parafrasi e analisi del testo
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