Con un titolo originale, Vacche amiche (Marsilio, 2015,) arriva in libreria l’autobiografia non autorizzata di uno degli scrittori più eccentrici e profondi che abbiamo in Italia. Aldo Busi racconta di sé con massima reticenza e al contempo uno strano candore. Ritroviamo i temi che hanno caratterizzato la bibliografia dello scrittore, come l’infanzia orribile con un padre manesco e sempre ubriaco e la decisione di abbandonare Montichiari, in provincia di Brescia, per trovare fortuna all’estero.
Il giovane Busi, già lettore onnivoro, si presta a qualsiasi mansione gli venga assegnata, perché sa che il padre non gli invierà nemmeno il becco di un quattrino.
Busi accetta lavori anche strani, malpagati, spesso negli alberghi, nei ristoranti e nel frattempo studia il tedesco, l’inglese e il francese. Parliamo di un ragazzo che ha patito la fame e la sete.
Quando lo scrittore divenne famoso, incominciò a tradurre anche i libri stranieri che gli erano piaciuti, ma ora, superati i sessanta anni da un pezzo, si chiede se fosse veramente lui a conoscere così bene le lingue, ora che si rifiuta anche di parlare l’italiano e si rifugia nel dialetto.
Ma lasciamo parlare lui:
"Quando leggo nei risvolti di copertina che avrei tradotto Schiller, Goethe, Heimito von Doderer... lasciando perdere gli inglesi, gli
italiani dal medioevo al rinascimento e qualche curatela dal francese e dallo spagnolo senza firmarla... ho l’impressione di essere alle prese con millanterie non partite da me e che devo sbugiardarmi da solo prima che lo faccia qualcun altro. Non essendo specialista in niente e privo di allenamento linguistico dal vivo, sto dimenticando tutto, più studio a tavolino meno imparo o meglio, più disimparo".
Un Busi sottotono, dunque, che quasi non vuole prendersi meriti, che non sopporta il suo paese natale, anche se ora non lo lascerebbe mai.
Il suo anticlericalismo è sempre fortissimo, la sua moralità arriva da una condotta proba, ma che tiene lontano il Vaticano, i politici, le istituzioni pubbliche. Non si scaglia troppo verso i credenti, segno di maturità e di accettazione dell’altro o forse ci siamo abituati alle sue arrabbiature.
La lingua di Busi è cristallina, scorrevole, non consapevolmente difficile, come è successo con altri suoi lavori di scrittura.
Busi ritorna con un piccolo capolavoro.
Basti pensare come sa scorticare le parole, scrive:
"L’invidia è un sentimento segreto che trapela senza che tu lo possa manifestare apertamente, e non fa per me, mi sono voluto troppo estrovertito e diretto per covare sentimenti vergognosi: l’odio lo puoi manifestare, l’amore non del tutto, l’invidia te la devi tenere per intero. Troppo ingombrante, troppo pesante, dovevo stare leggero, ero poco più di un bambino, dovevo spostarmi da un posto all’altro per trovare lavoro e meno umiliazione che nel precedente, nessuno portava i miei bagagli"
Ora c’è anche il peso dell’età e Busi sente il bisogno di un amico con cui discorrere di politica, di libri, di letteratura, con leggerezza, ma è difficilissimo da trovare, perché il suo nome mette in fuga le persone, che non si sentono "autorizzate" a disturbarlo.
Quindi la massima onestà dell’universo dello scrittore sembra destinarlo alla solitudine, anche se il libro è ironico, scanzonato, crudele, importante.
Chapeau.
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Ho finito di leggere questo prodotto editoriale. Da ex estimatore di Busi non posso dire che non mi sia piaciuto: proprio mi ripugna. Non capisco cosa ha fatto nel testo e perché abbia fatto quello che ha fatto. Ho letto alcune note che non saprei nemmeno se definire recensioni. Mi chiedo come sia possibile che uno scrittore, o presunto tale, intenda la letteratura alla luce di piccoli ragionamenti dal vaghissimo sapore sociologico, che nemmeno un giornalista normodotato osa più pubblicare, da quando e da quanto queste sciocchezze è chiaro che non interessano più nessuno. “Autobiografia”, “lingua epigrammatica”, “io”: come è possibile appendersi a questi ganci illusori, totalmente masturbatori e nemmeno affascinanti dal punto di vista di una morbosità immaginata e fantasticata? Ciò perché la classe intellettuale italiana è composta da gente non soltanto priva di ogni rigore, ma priva soprattutto della capacità di sentire se stessi e quindi l’altro, essendo questi costosi figuri cresciuti all’ombra delle fanciulle infiorettate che furono le loro mamme e i loro papà, di cui inesaustamente parlano, come farebbero i bimbi sospesi tra onnipotenza e mancanza di forma: soltanto, costoro sono meno poetici dei bimbi. L’infanzia protratta degli egotici privi di principio di realtà: questo non è né nichilismo né profezia né “io” (per quanto mi riguarda, non sono fatto così e non sento così, non sono un inacidito sessantenne, ma nemmeno pendolo tra repulsione dello Strega o del Nobel e inconsistenza psicotica). Di ciò, mi pare, Busi non si occupa. E’ certo, leggendolo, che non si sta occupando nemmeno di lingua, di fantastico e di ingaggio di sé. E’ come se qui abbia dato concrezione, più che concretezza, alla “posa Busi”: l’emozione non viene più e all’ammosciamento del testo corrisponde una polverosa sostanza esistenziale che corrisponde a flosciaggine fin troppo avvertita e franca, ma dove la franchezza è ormai una maniera. Questo libro si occupa di ieri, non di oggi. Tantomeno lo fa in termini universali o perlomeno universalistici: non ingaggia l’attrito con l’orizzone attuale del tempo sempre a venire, del presente non storico. Non c’è attualizzazione e strappo violento dalla storia, appunto, da parte della voce che stende queste frasi anodine, richiamando il noiosissimo corredo di situazioni borghesi e postborghesi: come va l’amore?, come va il lavoro?, come va il sesso?, come va l’economia?, come va la salute?, come va l’età? Non è vero che la vita è il centro di questa narrazione, ma non è vero nemmeno che lo sia quella sospensione tensiva del soggetto e del corpo di sogno che sempre si muove nella narrazione. In conclusione, il fatto è molto semplice: in questo libro non c’è poesia. Dell’ironia sugli altri e i “bacini” non so che farmene, io voglio la letteratura, forse nemmeno voglio più quella, certo non desidero l’elenco delle tue ossessioni superabili con qualche benzodiazepina, o peggio non tollero l’ironia sulle benzodiazepine. Se sei infelice, sono affari tuoi. “Chi soffre non è profondo”, scriveva Milo De Angelis in “Somiglianze”. Attualmente questo poeta italiano, il massimo vivente, vale quelle migliaia di Busi e qualche milione di scrittori-della-fine che si sono occupati di “infilare in un certo modo le parole una dietro l’altra”, corroborati dall’onda di scandalo e adrenalina della Società dello Spettacolo che fu, che è una bella iniezione di storia per chiunque ambisca a essere lucidamente vivente in stato narcolettico, com’è il caso di certi sedicenti “Scrittori” con la esse maiuscola mai pervenuti né a un umanesimo né a un umanismo. Tutt’al più, a un testo corposo e immanente: di nulla.
Caro signore, rispetto il suo pensiero, ho letto con attenzione quello che ha scritto, ma non lo condivido.
Saluti.
Vincenzo Mazzaccaro
Egregio Sig. Mazzaccaro, non è mia intenzione polemizzare o aprire una querelle con alcuno: mi sono limitato ad esprimere una mia opinione, corrobarata, tra l’altro, dalla lettura di tutti i precedenti libri di Busi. Per molto tempo ho pensato che Busi fosse un bravo scrittore; oggi, alla luce di una precisa prospettiva storica, mi rendo conto che Busi altro non è stato che uno dei tanti personaggi mediatici che la Società dello Spettacolo di trent’anni fa ha galvanizzato per portare avanti una sistematica operazione di deculturazione del nostro Paese, sostituendo, tra l’altro, la prassi della letteratura con facili funambolismi verbali e invettive da pseudointellettuali intronati sul palcoscenico di un qualche Teatro Parioli a uso e consumo del popolo dei teledipendenti.
Perfino Busi, usato e buttato via come un kleenex da tale Sistema spettacolar-politico-televisivo ha finito col credere alla favola del "più grande scrittore vivente", riempiendo i suoi libri - ora lo vedo bene - di interminabili vaniloqui e lagne egocentrate su come sarebbe il più bravo in un mondo di incapaci, il più onesto in un mondo di corrotti, il più amorevole in un mondo di cinici e così via di lagna in lagna fino allo sfinimento per noia.
Ma la colpa di questo ammorbamento è di chi ha pompato per anni un signore che in fondo non ha mai mostrato alcuna qualità, alimentando un ego già spropositato. E oggi ci tocca leggere le sue sceneggiate da Calimero piccolo e nero, che si adira contro tutti perché non lo considerano più il centro del suo mondo, che se la prende quasi sempre con le belle donne (Freud si divertirebbe un botto), che fa del vittimismo la sua cifra stilistica, che è più banale di un pensierino dei Baci Perugina scritto da Federico Moccia. Aldo Busi si conferma per l’ennesima volta come l’alfiere della retorica un tanto al chilo: pieno di sé, è un narcisista impenitente che nasconde le proprie insicurezze sotto una coltre fumosa di arroganza intellettualoide. È il classico “monoculus in terra caecorum”, che ha gioco facile nel fingersi superiore in un ambiente popolato da galline e marcantoni senza arte né parte, e che si compiace di una schiera di fan pronti ad osannare acriticamente ogni sua boutade, nella peggiore tradizione del talk show televisivo. Ma davvero avvertivamo l’impellente bisogno di conoscere la vera natura di Aldo Busi?
Mi auguro che questo scambio di idee finisca qui, perché davvero non mi interessa aprire un dibattito su Aldo Busi, al quale, se lo incontrassi, potrei chiedere soltanto i soldi indietro per i libri che mi ha fatto leggere; mentre, per il tempo sprecato, non potrei avanzare alcuna richiesta di risarcimento e dovrei incolpare unicamente me stesso per aver ceduto al fascino dell’egolatra di turno che spaccia la jocolerie verbale per scrittura letteraria.
Cordiali saluti.
Antonio Coda.
No niente polemiche, egregio Signor Coda. I miei migliori saluti. Vincenzo Mazzaccaro