

Urì
- Autore: Kamel Daoud
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: La nave di Teseo
- Anno di pubblicazione: 2025
Vincitore nel 2024 del più prestigioso premio letterario francese, il Goncourt, Urì dello scrittore algerino naturalizzato francese Kamel Daoud arriva nelle librerie italiane edito da La nave di Teseo (giugno 2025), con la traduzione di Simona Mambrini. Un romanzo potente e immaginifico, schietto nella brutalità degli eventi narrati e soprattutto coraggioso, che con le sue 438 corpose pagine sonda e indaga allo stesso tempo la portata della memoria collettiva e i complessi rovelli dei traumi individuali, mettendo su l’affresco di un tassello poco conosciuto della Storia.
A parlare fin dall’incipit è una madre, che rivolge un lungo fiume di parole alla propria figlia. Eppure questa frase contiene almeno due imprecisioni. Alba, la protagonista e voce narrante, non è ancora madre e la figlia a cui si rivolge è ancora una massa informe contenuta nel suo ventre; inoltre Alba madre non vuole diventarlo, e se si rivolge alla sua urì (il termine utilizzato per designare le figure femminili del paradiso, secondo il Corano) è per informarla, ancora meglio convincerla della necessità di abortire, privandola dell’orrore che regna su questo mondo terrestre e salvandola dalla disgrazia di nascere donna. Con la soluzione a questo incidente a portata di mano, pronta a essere ingerita con un bicchiere d’acqua, e una dolcezza intessuta di sangue, Alba dialoga con questa vita ancora senza vita:
Vedi, piccola estranea inattesa, se vieni al mondo in questo Paese, corri un bel rischio. Ci saranno anni in cui mangerai a sazietà, altri in cui sarai tu a essere mangiata e altri ancora in cui ti taglieranno la gola. Pagherai per il sogno astruso di un vecchio profeta e qualcuno ti violenterà. […] Tre pillole e salverò un’intera vita dalla vita intera.
Altrettanto complesso è sostenere che la protagonista parli. Non soltanto perché il dialogo con la creatura che porta in sé non può che avvenire in un linguaggio altro, intimo e dagli echi impercettibili all’esterno, ma soprattutto perché per Alba emettere suoni è quasi impossibile. Una piaga immensa le attraversa il collo, ferita rimarginata lì dove ha subito anni prima un tentativo fallito di sgozzamento, e il sorriso obbrobrioso della cicatrice si accompagna a una cannula che le permette di respirare; con queste premesse, sentire sapori e odori le è stato precluso per sempre e la voce che viene fuori dal suo apparato fonatorio è appena udibile, un soffio che si porta via il vento prima di arrivare alle orecchie. Così, impossibilitata a usare la lingua esteriore, la protagonista si ripiega verso quella interiore, intessendo la storia della sua esistenza e raccontandola alla sua urì.
La condizione di Alba è una grande metafora della Storia. Al momento della sua morte e seconda nascita, nella notte fra l’ultimo giorno dello scorso millennio e il primo gennaio 2000, tutta la sua famiglia è rimasta uccisa barbaramente durante uno dei numerosi e vili atti che costellano la guerra civile algerina, nell’ultimo decennio del XX secolo. Questo conflitto, che costò la vita di centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, è stato successivamente, appena pochi anni dopo la fine dei combattimenti e degli attentati, letteralmente cancellato dalla storia algerina; è vietato, nel paese mediterraneo, parlare, citare o documentarsi sugli accaduti di quegli anni bui, e si rischiano multe salatissime e la detenzione se se ne fa accenno pubblicamente. Di fronte a questo oblio imposto, Alba (una ragazza ribelle, col corpo ricoperto da tatuaggi, che fuma e gestisce un salone di bellezza proprio di fronte a una moschea) vaga in un labirinto doppiamente massacrante: da una parte l’incubo perenne di ciò che ha vissuto, con le immagini di quella notte che le infestano l’anima, e dall’altra, pur nel portare visibile il marchio di quell’orrore, la prigione costituita dall’impossibilità di parlarne. La portata di questo meraviglioso romanzo risiede tutta in questa indagine: come vivere la condizione di vittima della Storia quando tutto l’apparato (storico, politico e religioso) spazza via le coordinate che ti hanno resa tale? Dove va a finire la memoria, quintessenza di un’esistenza, se questa viene annullata, vietata, negata?
Io sono la traccia autentica, l’indizio più concreto di tutto quello che abbiamo vissuto in dieci anni in Algeria. Io nascondo la storia di un’intera guerra, iscritta sulla mia pelle da quando ero bambina. [...] Con te, resisto alla cancellazione che in questo Paese è stata imposta alle persone come me. In pochi ricordano al guerra civile degli anni ’90, e io sono la prova vivente che quella guerra durata dieci anni è esistita davvero, che è stata cruenta. Io sono l’ultima prova, ti dico.
Fra i singhiozzi della scelta su quando ingerire le tre compresse, in una reticenza dettata forse dai dubbi o forse dal desiderio anzitutto di portare a compimento la narrazione della sua storia, Alba e la sua urì si mettono in viaggio, in direzione dei luoghi che hanno fatto da sfondo a quella tragica notte. Ed è proprio durante questo viaggio, davanti alle prese di coscienza di uomini, donne e bambini che riconoscono la simbologia celata dietro quella ferita ancora sanguinolenta, che anche altre voci iniziano a mescolarsi a quella principale. Se Alba parla con la sua voce interiore e la sua sola fisionomia devastata, gli altri, riconoscendo in lei la conferma di ciò che è stato imposto di dimenticare, si sentono richiamati a loro volta al racconto e, tassello dopo tassello, altre esistenze devastate dal conflitto iniziano a detonare fra le pagine del romanzo, conducendo lettore e protagoniste verso l’ultima frase dell’opera.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Urì
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