Romanzo viennese
- Autore: David Vogel
- Genere: Romanzi d’amore
- Categoria: Narrativa Straniera
- Casa editrice: Giuntina
- Anno di pubblicazione: 2014
“Romanzo viennese” di David Vogel, morto ad Auschwitz nel 1944, fu ritrovato in forma di manoscritto solo nel 2010 nell’archivio Gnazim di Tel Aviv. Si sa poco della vita miserabile di questo scrittore mitteleuropeo, autore di almeno tre romanzi, di cui questo, pubblicato dalla casa editrice La Giuntina nel 2014, è una sorpresa straordinaria. Forse in parte dovuta alla ottima traduzione di Alessandra Shomroni, il testo appare di grande modernità e di notevole efficacia narrativa. Il fascino di Vienna, per il provinciale Michael Rost, che viene della periferia dell’impero austro-ungarico, colto come spesso è accaduto ai grandi narratori alla fine del secolare ciclo di quella grande capitale, è davvero la metafora della crisi dell’Europa alla vigilia della Prima guerra mondiale.
Come accadeva ai grandi contemporanei di Vogel (Joseph Roth, Franz Kafka e perfino Thomas Mann), anche in questo romanzo si respira quell’aria di decadenza, di fine di un mondo che presto non sarà più lo stesso, di rimpianto di un’epoca per alcuni molto felice.
Il diciottenne Rost fugge della chiusa atmosfera familiare e senza un soldo, senza un mestiere, raggiunge la capitale, un faro sognato da chi viveva lontano dalla elegante, ricca, movimentata capitale imperial regia. Dapprima costretto a vivere di espedienti, conduce una vita miserabile e frequenta un locale, l’Unità, che raduna un popolo cosmopolita di artisti falliti, convinti anarchici, intellettuali in cerca di fortuna, donne facili, quasi tutti ebrei, sfuggiti ai drammatici pogrom che si susseguivano in vari punti dell’Europa dell’est. Ambiente misero, quello descritto da Vogel, di cui lui stesso aveva fatto parte, e che descrive con grande acutezza:
“Rost si rammentò dei giovani della sua città – apprendisti sarti, falegnami e simili – che predicavano la rivoluzione in incontri clandestini gridando ‘Compagni, lavoratori! Ribellatevi come un sol uomo! Spezzate le catene!’, fino a che non venivano catturati dalle autorità e spediti in Siberia dove si trasformavano in martiri della rivoluzione”
Per caso un ricco personaggio, simile al giovane Rost ma ben più adulto, Peter Dean, nota il giovane e ne percepisce l’ambizione tanto simile alla sua, la voglia di emanciparsi, lo avvicina, lo riveste, gli regala una discreta somma, lo inserisce nel suo ambiente, lo convince a trovarsi un alloggio migliore. In un ambiente alto borghese Rost trova un confortevole alloggio: la padrona di casa, poco più che trentenne, Gertrud, si innamora perdutamente di lui e gli si concede con grande spudoratezza, tradendo il marito; la sedicenne Erna, sua figlia, viene attratta anche lei dal biondo e intraprendente giovanotto con cui ambisce intrattenere una relazione da adulta, rivaleggiando con la madre.
Sessualità descritta in modo esplicito, omosessualità femminile, relazioni adulterine vissute con apparente disinvoltura, mancanza di principi etici, spregiudicatezza nei rapporti erotici, una certa violenza che appare nei rapporti tra alcuni dei personaggi, serate trascorse nei bordelli bevendo in modo smodato, profonda infelicità e grande solitudine caratterizzano le esperienze di alcuni dei personaggi minori del racconto: il generale Felix Von Bronhof, militare rigidissimo con i suoi inferiori, ubriaco e insicuro in privato, il ricchissimo Fritz Anker, brutto e sgraziato, che crede di trovare calore in una povera prostituta, che in realtà gli ruba il denaro mentre dorme.
Tuttavia emergono nel romanzo pagine liriche, quelle nelle quali i due giovani, Rost ed Erna, passeggiano per una città che ai loro occhi sembra ancora un luogo dove sarebbe possibile la felicità, ma anche il rimpianto per un’incapacità di viverla appieno:
“Camminarono per strade che già si preparavano ad accogliere una serata mite, tranquilla, pervasa da un’atmosfera di libertà dopo una giornata di lavoro, quando gli esseri umani sembravano svegliasi da un sonno opprimente e affollavano i marciapiedi, i tram e le terrazze dei caffè e, vedendo i tetti ancora illuminati da una debole luce, sentivano un lieve rimpianto per un’altra giornata estiva trascorsa senza che loro se ne rendessero conto... e i rintocchi sordi delle campane di una chiesa echeggiavano pesanti, cupi e lamentosi, evocando un’altra oscurità lontana, antica, indistinta, muffosa, malsana...”
La “finis Austriae”, divenuta un topos nella narrativa primo-novecentesca, trova in queste pagine una chiara identificazione, una legittimazione letteraria di grande livello, consegnandoci un romanzo inatteso di notevole spessore stilistico.
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