Quando cavalcavo i mammut
- Autore: Paolo Romano
- Categoria: Narrativa Italiana
- Anno di pubblicazione: 2020
Quando cavalcavo i mammut (Scatole Parlanti, 2020) di Paolo Romano, giornalista, scrittore e critico musicale, è un romanzo che racconta i due viaggi che intraprende il protagonista, il cinquantenne Luigi Giavatto: quello in Sicilia in compagnia dell’anziano padre, e quello intimistico col quale cerca di decifrare e ricostruire il suo rapporto con lui. Il libro riprende la tematica della solitudine e della riflessione interiore già affrontata dall’autore con la precedente opera La formica sghemba, pubblicata dalla medesima casa editrice nel 2019.
Quando cavalcavo i mammut rappresenta un confronto fra due generazioni molto distanti fra loro e pone l’attenzione sui cinquantenni di oggi che, cresciuti in un mondo post-ideologico e in una società focalizzata più sulla collettività che sull’individuo, spesso avvertono la mancanza di punti saldi di riferimento. Da un lato si sentono più liberi rispetto ai loro genitori, ma dall’altro sono soli e in difficoltà a rispondere alle sfide sociali. Paolo Romano racconta magistralmente, con profondità e ironia, questo gap generazionale e il disagio che ne consegue.
Il protagonista, ci spiega in tono colloquiale la voce narrante, è single. O meglio, è solo, vive in una odiosa solitudine, in preda al timore di imbruttirsi, di lasciarsi andare all’apatia. O meglio ancora, è un solitario maniacale, un censore di sé stesso che lo ha fatto diventare esattamente ciò che voleva evitare: un individuo fissato con gli schemi, nevrotico e narciso.
Luigi Giavatto – a tratti identificato soltanto con le iniziali di nome e cognome, come farebbe uno psicanalista riferendosi a un caso clinico – è un impiegato del Tribunale di Roma col pensiero fisso alla musica, che trascorre le sue giornate lavorative tra fascicoli e pratiche burocratiche e intanto pensa al jazz. È un personaggio che appare allo stesso tempo buffo e antipatico, che fa ridere, ma un attimo dopo suscita tristezza e malinconia. Ironicamente l’autore, già dopo la descrizione offerta nelle prime pagine, ci invita a riflettere, per decidere se continuare o meno a leggere la sua storia.
“Ora, non so che idea vi siete fatti o vi stiate facendo di Luigi Giavatto, ma se poche righe sono bastate a farvene una, la vostra lettura può interrompersi esattamente qui”.
Tutto in questo romanzo, oltre alla storia narrata, rispecchia la personalità del protagonista. Luigi Giavatto svolge un lavoro che gli somiglia: lento, macchinoso, fatto di burocrazie inutili e di fascicoli impolverati. Anche la scrittura richiama il suo modo di essere: si alternano diversi stili narrativi, il linguaggio spesso è ricercato e ricco di parole in latino e neologismi coniati direttamente da lui, sono presenti digressioni anche molto lunghe, flashback, note a piè di pagina che sono storie dentro altre storie, riproduzioni su due colonne di dialoghi o pensieri da un lato e contro pensieri dall’altro. Luigi Giavatto, in effetti, è proprio così: nella solitudine dei suoi ragionamenti si perde in una miriade di pensieri che si richiamano l’un l’altro e, alla fine, non è mai contento.
“C’era sempre qualcosa che non tornava, qualcosa di insopportabilmente reale che non sapeva "endiadare" all’idea che s’era formato e dietro a quel qualcosa vagava, pur consapevole che non n’avrebbe potuto far un’ossessione, ma ciononostante era "sfastidiato" come della puntura d’un insetto lacustre all’esterno dell’alluce sinistro”.
Luigi Giavatto è un inetto, si muove disorientato nella sua esistenza, perdendo di vista o abbandonando con una scusa le cose per lui importanti, come la musica o la scrittura, e sopravvalutandone altre, come il sesso nelle relazioni umane.
Molto diverso è invece suo padre Franco, un uomo granitico, poco propenso a lasciarsi andare al rapporto affettivo col figlio, col quale non aveva quasi mai dialogato e, nelle rare occasioni in cui lo aveva fatto, non era riuscito a entrare in sintonia con lui.
Un giorno, Luigi Giavatto si ritrova a fargli assistenza in un letto d’ospedale. In quell’occasione fa una scoperta che lo sconvolge: il suo pene è uguale a quello del padre.
Anche questo episodio è commentato da Paolo Romano con l’ironia e con lo stile colloquiale che caratterizzano il romanzo. L’autore infatti ci mette in guardia, dicendoci:
“Iniziate e mettere i bimbi a letto, non son gigli per loro”.
Poi ci spiega che la scena del pene descritta nel sesto capitolo avrebbe dovuto costituire l’incipit del romanzo, ma successivamente si è pensato di posticiparla in quel punto della narrazione, dove è ora di “iniziare a prendere le misure con l’affare, senza che per ciò ne derivino i soliti bifolchi, banali e brutali doppi sensi”.
Luigi Giavatto decide di assecondare il desiderio del padre di recarsi in Sicilia per rivedere la sua terra d’origine e i suoi parenti, sia quelli viventi sia quelli al cimitero. Così i due partono per un rocambolesco viaggio – molto probabilmente l’ultimo, data l’età e le condizioni di salute di Franco – che diventa l’occasione per analizzare e cercare di superare le reciproche incomprensioni, ma anche, per Luigi Giavatto, per guardarsi dentro. Il pensiero ossessivo nei confronti del pene del padre, che di tanto in tanto ritorna, richiama il loro controverso rapporto, da quando Luigi era stato concepito, alla difficile relazione durante l’età adolescenziale e poi in quella adulta.
Luigi Giavatto è un uomo come tanti, e per questo sviluppa empatia nel lettore. Le sue situazioni, benché spesso iperboliche, le sue fissazioni, le sue insoddisfazioni, il suo costante preoccuparsi delle aspettative altrui nei suoi confronti ci ricordano che un po’ tutti abbiamo qualche sogno irrealizzato, o un rapporto interpersonale difficile da risolvere, o un qualche capitolo della nostra vita che varrebbe la pena di riscrivere in modo diverso.
È proprio questa umanità del protagonista, a mio avviso, l’elemento che maggiormente contraddistingue Quando cavalcavo i mammut e che ci porta, in un altalenarsi di vicende e ricordi, a sorridere e commuoverci fino al finale, originale e sorprendente, che diventa l’occasione per continuare a riflettere, non solo sul cinquantenne Luigi Giavatto e sui gap generazionali, ma anche sulla nostra vita e sulle relazioni con le persone a noi care.
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