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Recensioni di libri

Poesie del tempo ordinario di Luigi Aliprandi

Samuele editore, 2023 - Luigi Aliprandi ha vinto il Premio Frascati nel 1998 e ora ritorna al pubblico con una nuova silloge “Poesie del tempo ordinario” che ci parla dell’inutilità che si accresce, del non trovare mai il fondo delle cose.

Graziella Atzori Pubblicato il 25-06-2023
Poesie del tempo ordinario

Poesie del tempo ordinario

  • Autore: Luigi Aliprandi
  • Categoria: Poesia
  • Anno di pubblicazione: 2023

Poesie del tempo ordinario di Luigi Aliprandi (Samuele editore, pp.86, 2023), prefazione di Alberto Bertoni, potrebbe anche intitolarsi poesie della contraddizione, ed è uno stato da cui il poeta non desidera uscire, pur soffrendone.
Si potrebbe credere che l’artista evidenzi una sua incapacità, derivata dalle delusioni, a cui seguono non senso, mancanza di fondo e di centro interiore, tutte realtà psichiche scritte e riscritte nella coloritura del Novecento.
Per inciso, l’atomo ha un centro, così il sistema solare e le galassie… e sul sarcofago d’oro della tomba di Tutankhamon il faraone fanciullo ha un occhio inciso sul cuore.
È il nostro centro “anahatha”, che in sanscrito significa “non colpito, l’invincibile”, perché è eterno.
Ci siamo abituati a non farne uso, anzi a negarlo. Per Aliprandi si tratta di una volontà precisa, volontà di restare fermo com’è, dichiarata in una preghiera che non lascia dubbi interpretativi nel voler vivere disancorato e incostante:

e il tempo mi peggiora, quindi ti prego / ti prego Signore, schianta la mia /
incostanza, non togliermela mai dal cuore.

Se per Montale il dolore, il male di vivere è individuato nell’ostacolo e nella decadenza, nel rivo strozzato, nella foglia accartocciata, per Aliprandi è quanto viene scartato, la scoria, l’inutilità che si accresce, il non trovare mai il fondo delle cose, il vuoto esperito, che comunque egli vuole o vorrebbe recuperare per essere. Ecco la sua contraddizione essenziale. Essere diviene dunque una rincorsa dell’impossibile, trattenere ciò che è destinato a morire:

di esserci, ma essere, dico, all’altezza / di ciò che va sprecato, la poca vita / pagata a sangue sui bordi dell’uscita.

Anche il tempo si disfa, ben lo sappiamo, l’amore ci dilegua unendoci nel dono reciproco, e di entrambi il poeta vuole riappropriarsi nell’attimo stesso in cui li perde:

L’amore è solamente / questo, un depensarsi fino / allo stordimento, un appropriarsi / del tempo proprio / nel suo sfarsi – o siete con me
/ o contro voi stessi.

Il libro è dedicato a Francesca, la donna super desiderata, presente nella carne ma solamente nella carne, fin nell’intimità più segreta, nei liquami colanti sulle cosce, e nei versi bellissimi che seguono:

Alla ricerca della perfetta forma / che dica cose non ascoltate ancora / anzi non dica niente, sia la riforma / di segno e contenuto nell’aurora / del senso, fuori e dentro dalla norma / dica per sempre e lo dica ora – / è nel lenzuolo che di te si sazia / mia sola sindone ingigliata di grazia.

Eppure Francesca non è Beatrice, non è colei che guida come invece è la moglie di Montale. Quest’ultimo nel lutto la ricorda miope ma veggente più di lui (si veda la sua lirica Ho sceso dandoti il braccio). Francesca è “confessora ” ma pure “torquemada”, il giudice, la torturatrice, la donna che rivendica di appartenersi, mentre lui pretende di essere il suo solo Battista, consegnandosi a lei anche per morire, ma ciò significa anche deresponsabilizzarsi.
Francesca tace e non dice. Il silenzio diventa un’accusa. Emerge la diseguaglianza dei cuori.
Emerge pure qualcos’altro, nella sincerità della rivelazione:

nel grugnito del mio entrarti in pancia / che ci fa più vivi anzi più morti...

È un grugnito incosciente che in un attimo annulla o fa dimenticare la raffinata capacità stilistica dell’autore, rimata.

La silloge si apre con un sonetto in perfetta stesura di 14 versi, secondo la scuola siciliana di Federico II, con la glorificazione dell’abbraccio potenzialmente salvifico, in cui leggiamo:

[…]sentire sempre al di là /di noi, palpitare di febbre l’abbraccio / con la pena di tutti, la sfinita dolcezza /che c’è tra cuore e cuore.

Il finale della silloge è dello stesso tenore, in cui il solo nome può essere una resurrezione, evocato mentre lei dorme:

[…] ... via via, ho voglia / di scrivere il suo nome, di legarlo al contegno / della voce, nel catalogo dei vivi, nel / resoconto di noi poveri cristiani, una / voce che ci tenga e fuoriesca, nascosta / nel suo stesso sonno, Francesca.

Nasce spontaneo un accostamento a una splendida canzone romanesca, resa famosa da Claudio Villa e da Gabriella Ferri:

Nina, si voi dormite / Lassate ch’io ve bacio / E v’addorcisco er sogno / Cantanno adacio, adacio.

Aliprandi ha vinto il Premio Frascati nel 1998 con il libro La sposa perfetta.

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© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Poesie del tempo ordinario

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