

Scena dal film "Il Gattopardo" (1963) / Public domain, via Wikimedia Commons
Leggendo un quotidiano o sfogliando una rivista d’attualità tutti ci siamo imbattuti almeno una volta nella celebre frase “perché tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”, un modo di dire sibillino e allusivo che nasconde, però, un significato profondo.
Affinché tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi è, infatti, la bandiera di un atteggiamento politico nel quale i governanti dell’Italia repubblicana, nel corso di più di centocinquant’anni, hanno mostrato di essere maestri indiscussi: il trasformismo.
Questa forma di opportunismo politico, questo esercizio di scaltrezza e di real politik viene anche etichettato con il nome di gattopardismo: ciò perché, come molti sanno, il motto se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi ha un’origine letteraria che chiama in causa il grande romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Riscopriamo allora insieme l’origine dell’aforisma perché tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi e il suo significato nel linguaggio politico dei nostri giorni.
L’origine letteraria del motto perché tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi
È Tancredi Falconeri, nipote prediletto di Don Fabrizio Corbera, Principe di Salina a pronunciare la frase che è diventata, forse in modo un po’ riduttivo, il simbolo di un intero romanzo, quando, nella prima parte del Gattopardo, afferma:
“Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?”
Siamo nel Maggio 1860, Tancredi è un giovane rampante e pragmatico che ha scelto di unirsi alle camicie rosse perché ha compreso che gli eventi che si stanno consumando in quei mesi segneranno una fase di non ritorno e dischiuderanno una nuova pagina della storia italiana, dopo la quale nulla sarà più come prima. Al costernato capofamiglia che gli ricorda che quelli sono “tutti mafiosi e imbroglioni” e che loro, gli aristocratici, sono per il re, il lungimirante nipote oppone, poco prima, un’altra eloquente domanda: “ma per quale re?”.
Tancredi ha già capito che l’anacronistico ancien régime di Ferdinando e Franceschiello non tornerà più, che nella nuova Italia non ci sarà più posto per il Regno delle Due Sicilie, e per tutto quel decadente mondo di cui lo “zione” è il rappresentante più autentico.
Non solo, Tancredi, nobile di sangue ma già privo di quelle ricchezze che, per il momento, ancora annusa grazie al Principe che lo ritiene “il figlio suo vero”, sa bene che tutto questo compassato charme potrebbe non durare a lungo: mentre Don Fabrizio osserva i cambiamenti che si consumano intorno a lui con sguardo distaccato e malinconico, lui è pervaso dalla consapevolezza che dovrà agire per mantenere privilegi e agi.
Moti e rivoluzioni non vanno allora aborrite quanto, piuttosto, cavalcate e orientate verso l’obiettivo più conveniente: come Cavour anche Tancredi sa bene che in quel momento l’impresa capitanata da Garibaldi potrebbe degenerare nel pericolo più temuto dalla borghesia ma soprattutto dall’aristocrazia: quella repubblica che arriverà poco meno di un secolo dopo.
Ecco, allora, che l’atteggiamento migliore si rivela quello di fare buon viso a cattivo gioco, fingere di accettare il cambiamento, accettarlo quel tanto che basta per trarne il vantaggio maggiore e per garantirsi una rendita di posizione, scendendo a compromessi con il nuovo che avanza.
Tancredi giocherà bene le sue carte: dopo aver sposato Angelica, la figlia di Don Calogero Sedàra, “una così bella anfora colma di monete”, in un matrimonio che suggella l’alleanza della vecchia nobiltà con i borghesi rapaci e arrivisti, lo ritroviamo, poi, deputato nel Parlamento del neonato Regno d’Italia. Con una nobiltà diversa, ma seduto in uno scranno alto quel tanto che basta per assicurargli ancora vantaggi e ricchezze non comuni.
Perché la frase se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi è diventata il simbolo de Il Gattopardo?
Avulso da tutti gli stilemi del romanzo storico ottocentesco, Il Gattopardo – nella pregnante definizione che ne ha dato Vittorio Spinazzola – è un romanzo antistorico: è venuta meno la fiducia nelle magnifiche sorti progressive che ancora coltivavano Manzoni o Nievo; in Tomasi di Lampedusa, ma anche ne I Viceré di De Roberto e ne I vecchi e i giovani di Pirandello, emerge la consapevolezza amara che il corso della storia non è votato al progresso e non garantisce la felicità degli uomini.
Il rapporto con la storia è uno dei temi principali del romanzo e l’aforisma se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi, proprio a tal proposito diviene illuminante.
Ne L’Intimità e la storia Francesco Orlando nota come:
“Difficilmente il lettore si porrà subito il problema […] se davvero Tancredi si sia spiegato. Vivrà però insieme al protagonista, di pagina in pagina, un altro interrogativo che provvisoriamente prescinde dal primo, e al quale la mutevole risposta appare più urgente e cogente: se come previsione la frase sia giusta o sbagliata. […] Questa peripezia conoscitiva narra Il Gattopardo; è l’attesa della soluzione di essa a spingerci avanti leggendolo, in penuria di trama”.
Tra l’universo valoriale di Don Fabrizio e quello del nipote corre una distanza siderale: dapprima, nel celebre dialogo con Chevalley, venuto a visitarlo per offrire a lui un seggio in Parlamento, il principe, da sempre restio alle decisioni si trova costretto a
“scegliere per sempre, decisione delle decisioni, fra collaborazione e rassegnazione, fra l’agire e il non agire”.
Per dimostrare che non è possibile “incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale” argomenta in modo tentacolare su secoli di dominazioni straniere, sul fatto che non importi fare bene o male, perché il peccato che i Siciliani non perdonano “mai è semplicemente quello di ‘fare’”, dal momento il loro spirito è affollato di manifestazioni oniriche al fondo delle quali riposa un desiderio di oblio e di morte; contro il progresso storico il principe arriva a opporre la violenza del paesaggio e la crudeltà del clima, asperità di una natura maligna contro la quale nulla può l’azione umana.
Nonostante la laconica convinzione di una Sicilia impermeabile al corso della storia, Don Fabrizio presagisce, però, che in una prospettiva temporale di ampio respiro, “dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra”. E, ancora, con la consapevolezza più nitida, propria dell’ora estrema:
“Lui stesso aveva detto che i Salina sarebbero sempre rimasti i Salina. Aveva avuto torto. L’ultimo era lui”.
È sempre Orlando a fornirci la chiave interpretativa per dare risposta all’interrogativo. Il 1860 e la Sicilia sono investiti, nel romanzo, da un processo d’estensione che conferisce alla vicenda, così ben circoscritta in un tempo e in uno spazio precisi, una portata universale: il 1860 “era, per la Sicilia, la tappa principale del ricambio di classe dominante che fra Sette e Ottocento, in tutta Europa, vide l’aristocrazia sostituita dalla borghesia”; la Sicilia, poi, diviene emblema di ogni periferia. Il Gattopardo, allora, mostra una profonda negatività ideologica:
“finisce male, per così dire, due volte in una. […] perché la classe del protagonista perde. Ma una volta in più perché essa non trova, come avvenne ad altre latitudini, ricambio valevole, ma peggiore”
La previsione, allora, non coglie nel segno: tutto cambia, dal momento che l’aristocrazia si dissolve in “un mucchietto di polvere livida”, ma in peggio, senza restare com’è, perché nessun avanzamento si realizza.
Tomasi di Lampedusa, pur nobile come Don Fabrizio, aveva una profonda conoscenza della storia e della letteratura inglese e francese, ammirava i grandi momenti di rivolta che favorirono il trapasso sociale e l’avvento della borghesia, la rivoluzione francese soprattutto. Ecco perché nel romanzo, pur tra molte reticenze, convivono due diversi rimpianti:
“quello, da ammettere ormai, per la borghesia, e quello per l’aristocrazia. […] l’uno volto a un ricambio e a un progresso mancato, l’altro ripiegato sulla perdita e la regressione nostalgica; l’uno improntato a coscienza civile internazionale, l’altro a tradizioni regionali appartate”.
Il significato corrente della massima perché tutto resti com’è bisogna che tutto cambi
Scritto a distanza di quasi un secolo dagli eventi narrati, quando gli ideali repubblicani che avevano animato la Costituente iniziavano a mostrare i primi segni di stanchezza, Il Gattopardo, la cui vicenda editoriale è assai nota, riscosse un successo internazionale già prima del Premio Strega (1959) e dell’adattamento cinematografico di Luchino Visconti.
Se il gattopardo del romanzo è il simbolo di un antico e nobile lignaggio, il gattopardismo che ne derivò all’opinione comune, come sinonimo di uno spirito siciliano in cui convivevano una tragica rassegnazione e un cinico realismo, divenne la cifra dell’intera classe dirigente italiana, restia a cambiamenti radicali e animata da un’ingiustificata fiducia nel futuro.
Quello del gattopardismo o, se vogliamo del machiavellismo e del trasformismo, è un male antico della politica italiana che, nelle sue tante manifestazioni, si rinnova imperituro, per rimanere sempre uguale a sé stesso. Già prima dell’unità fu trasformista Cavour, con il connubio con Rattazzi, mentre dopo lo fu Depretis, come anche Giolitti, attento ad accontentare i socialisti col suffragio universale maschile e poi vicino ai cattolici di Gentiloni pur di rimanere ben saldo al potere. Trasformista lo fu, inoltre, Benito Mussolini, prima socialista radicale, poi mandante dell’omicidio di un socialista.
Troppo lungo sarebbe continuare una lista che porterebbe per direttissima a tanti casi di malapolitica dei nostri giorni: sbandierare il nuovo e salire sul carro del cambiamento per confermare linee politiche imposte da altri o assicurarsi privilegi personali, a discapito dell’interesse comune è, in molti casi, anche oggi, il tratto più distintivo di una democrazia che, nonostante la sua giovinezza, appare irredimibile.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Perché tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi”: significato, origine letteraria e chi l’ha detto
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