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Recensioni di libri

Nella pietra e nel sangue di Gabriele Dadati

Baldini+Castoldi, 2020 – Un romanzo storico, un’indagine letteraria sui testi di Dante Alighieri, un giallo ricco di suggestioni, in cui passato e presente si intrecciano anche a una tenera passione d’amore.

Felice Laudadio
Felice Laudadio Pubblicato il 26-03-2020

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Nella pietra e nel sangue

Nella pietra e nel sangue

  • Autore: Gabriele Dadati
  • Genere: Romanzi e saggi storici
  • Categoria: Narrativa Italiana
  • Casa editrice: Baldini+Castoldi
  • Anno di pubblicazione: 2020

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Il tradimento non abbandona mai il traditore, la sua vita diviene un falso. Non c’è remissione nelle parole di Federico: suonano come una condanna per Pier delle Vigne, amico e consigliere. I lettori le “sentono” pronunciare dallo stesso Pietro, che parla a se stesso con la voce del sovrano.

Gabriele Dadati eleva drammaticamente il pathos di un confronto cruciale nel suo romanzo. Lo scrittore piacentino non ancora quarantenne ha dato alle stampe Nella pietra e nel sangue a gennaio (collana Romanzi e Racconti, Baldini+Castoldi). Numerosi i testi pubblicati in precedenza, a partire dalla prima raccolta di racconti nel 2000, e numerosi anche i premi. Nel 2009 ha rappresentato l’Italia nel progetto “Scritture Giovani” del Festivaletteratura di Mantova. Per le edizioni milanesi ha già firmato nel 2018 L’ultima notte di Antonio Canova, prova narrativa finalista al Premio Comisso.

Se gli chiedete: chi sei?, risponde d’essere “uno scrittore”, anche “e soprattutto” quando non scrive. È costantemente impegnato a “farsi un racconto del mondo”, guardando attorno, una “narrazione continua” nella sua testa, che “mette a posto tutte le cose”. Ritiene sia quello lo sguardo giusto, quello “l’essere dello scrittore”. Tutto il resto viene dopo.

Chi arriva subito in questo lavoro sono Federico e Pier delle Vigne, nel 1249. Poi si presenta anche il sommo Alighieri, non direttamente, ma per l’interposta persona di Dario Arata, giovane studioso di letteratura nella Roma di oggi.

Uomini fummo, e or sem fatti sterpi:
ben dovrebb’esser la tua man più pia,
se state fossimo anime di serpi.

Nel Canto XIII dell’Inferno, Virgilio accompagna il vate fiorentino nella selva dei suicidi, dove incontrano un uomo potente della generazione politica precedente, Pier delle Vigne, poeta, giurista, notaio redigente-logoteta, ministro e consigliere dell’imperatore Federico II, il re svevo di Sicilia e del Mezzogiorno. Suicida in vita, Pier è condannato per l’eternità a restare trasformato in un albero, i cui rami sanguinano se spezzati, come si lamenta rivolgendo la parola a Dante. Ha scelto il suicidio, accusato di tradimento immotivatamente, a quanto sostiene il poeta:

L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.

Anche i lettori incontrano il politico, scrittore e letterato capuano Petrus de Vinea (1190–1249), qui Pier delle Vigne. È in un bosco, guarda caso, dov’è rimasto isolato con Federico cercando una beccaccia, caduta nel buio durante una battuta notturna di caccia.
Sono pressoché coetanei, mezzo secolo di vita, ma Federico conserva un volto magro da eterno ragazzino, Pietro sembra un vecchio, invece, per la barba folta, la "faccia lunga come una porta e spessa come un torrione. Sembra invecchiato al posto del suo signore”.

Già uomo più potente dell’impero, delle Vigne pronuncia direttamente la sua condanna, parlando con la voce del sovrano:

"Non si tradisce una volta sola. Il pensiero del tradimento accompagna un giorno dopo l’altro il traditore e la sua vita diviene falsa. Ogni sua parola è cavalcata dalla menzogna. Così noi, Federico, pur non smettendo di amarti ti condanniamo. Il nostro cuore si fa amaro come un’erba solitaria, ma resta limpido come l’acqua che la sostenta. Da questo momento non sei più logoteta e giudice supremo, sei condannato per aver tradito l’imperatore".

La lunga citazione serve anche a rendere lo stile dello scrittore piacentino, che nei capitoli riservati al passato adotta un linguaggio arcaico, antico, lento, ma evoluto, per sciogliersi invece in un periodare più contemporaneo, in una narrazione più fitta quando si arriva all’oggi, a Dario.

È un dottorando dantista alla Sapienza di Roma, gli studi vanno lentamente, solo la barman del Linari lo chiama professore, l’è venuto così, due anni prima, forse per i libri impegnativi sempre in mano al giovane, il Kantorowicz, ad esempio. Dal primo esame da matricola Arata ama Lucia, la sua ragazza.

Complice un convegno alla Normale di Pisa, l’impegno di Dario si rivolge al mistero del tradimento di Pier delle Vigne, attraverso un’indagine nei commentari danteschi.
Ma il lavoro di Dadati non è un trattato di filologia, è un romanzo d’azione e reazione, di amore e di eventi, in sospeso tra passato e presente. C’è anche del giallo. Il valore aggiunto è che si tratta di giallo storico. E si aggiunge “un incredibile rimosso della coscienza occidentale”, europea e cristiana, che ha a che fare con una città che si chiamava Vittoria, ma che del trionfo non aveva niente.

A Pisa avanza un uomo, che dimostra di non possedere la vista. All’altezza di San Paolo a Ripa d’Arno, si getta come un montone contro un muro della chiesa, frantumandosi la testa. Accadde davvero? È una chiave del romanzo.

"La testa doveva essere rotta... C’era sangue. E subito dopo non c’era più niente".


© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Nella pietra e nel sangue

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