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Aforismi e frasi celebri

Perché si dice così? Ecco l’origine di 5 modi di dire celebri in italiano

Vi siete mai chiesti da dove derivano i modi di dire? Ci sono espressioni italiane che ripetiamo come un ritornello usurato senza neppure riflettere sul loro vero significato. Perché si dice “Toccare ferro” o “Essere una gattamorta”? Scopriamo origine e storia di 5 modi di dire celebri.

Alice Figini
Alice Figini Pubblicato il 07-09-2023

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Perché si dice così? Ecco l'origine di 5 modi di dire celebri in italiano

Perché si dice così? Semplice, è un modo di dire. Ci sono espressioni italiane che ripetiamo come un ritornello usurato, perfettamente consapevoli del loro senso nel dialogo quotidiano, benché a un’analisi più profonda il loro significato sfugga o appaia oscuro. Abbiamo smesso di interrogarci come fanno i bambini che hanno sempre un perché per tutto e trasformano ogni cosa in una domanda, dando persino alle affermazioni più assertive una curva interrogativa. Ma se per un attimo anche noi ci chiedessimo: “perché si dice così?”
I modi di dire più comuni sono un interessante serbatoio di indagine della lingua italiana che ci spalancano gli affascinanti orizzonti, spesso inesplorati, della linguistica e della storia della lingua e le sue possibili future evoluzioni.

Scopriamo da dove derivano 5 celebri espressioni italiane ormai entrate nell’uso comune e divenute modi di dire.

1. Dare un colpo alla botte e uno al cerchio: perché si dice?

Questo modo di dire Dare un colpo alla botte e uno al cerchio viene spesso usato in maniera canzonatoria per definire chi è incapace di schierarsi nel corso di una disputa e, per non scontentare nessuno, tiene entrambe le parti. Può indicare un atteggiamento diplomatico, ma di rado questo modo di dire viene utilizzato con un’accezione positiva. Questo modo di dire viene spesso utilizzato nel gergo politico, tanto da creare persino un neologismo: il cosiddetto cerchiobottismo, per indicare un partito o un suo esponente che tende a non compiere mai una scelta precisa.
Ma da dove deriva questa espressione? Dall’attività artigianale del bottaio che aveva il compito, come già il nome ci suggerisce, di cerchiare le botti. Per svolgere il suo lavoro il bottaio dava un colpo di martello al legno della botte per assestarlo e un altro colpo al ferro per permettergli di aderire meglio al contenitore. Un po’ qui, un po’ là, da una parte e dell’altra; l’antico mestiere del bottaio e il suo gesto così singolare ha ispirato il modo di dire che oggi conosciamo.

2. Toccare ferro: perché si dice?

Per allontanare la sfortuna e fare i dovuti scongiuri bisogna toccare ferro; ma perché? Questo modo di dire deriva da un’usanza medievale. Nel Medioevo infatti si usava inchiodare dei ferri di cavallo alle porte delle case, rigorosamente con un numero dispari di chiodi, per tenere lontane streghe e fattucchiere dall’abitazione.
Si tratta di un’espressione tipicamente italiana; infatti ad esempio nei paesi nordici si dice “toccare legno” perché si credeva che gli spiriti benigni - in grado di allontanare la sventura - vivessero negli alberi.
Da noi invece è rimasta la convinzione che il ferro allontani la sfortuna e il maleficio, dire “toccare ferro” è quindi un’abbreviazione dell’espressione “toccare il ferro di cavallo”.

3. Nascere con la camicia: perché si dice?

Chi è nato con la camicia è una persona fortunata, che dalla vita ha già avuto tutto, che è venuto al mondo in una condizione rara di privilegio. Ma sapete che non si tratta solo di un modo di dire, ma anche di un evento, molto raro, che accade pure nella realtà? Fa riferimento a una condizione biomeccanica.
Capita una volta ogni 80mila parti ed è segno di fortuna, ma non solo. Nel lessico biologico i bambini nati con la camicia sono quelli che nascono con il sacco amniotico integro, quindi sono ricoperti da una membrana chiara, da qui il termine “camicia”. Hanno dunque la fortuna di vivere un parto più naturale e di non accorgersi, quasi, di nascere. Anziché venire al mondo ricoperto di sangue, liquidi e muco, il bebè “nato con la camicia” esce dal corpo della madre ancora avvolto nella membrana amniotica protettiva. Per secoli i bambini che nascevano in questa particolare condizione di “protezione” venivano considerati cari agli Dei e dotati di capacità divinatorie. A lungo il modo di dire, nato con la camicia, ha fatto riferimento anche al famoso corredino dei neonati che potevano permettersi soltanto le famiglie più abbienti.

4. Essere al verde: perché si dice?

Perché associamo il colore verde alla mancanza di soldi? Non sarebbe più opportuno un altro colore, magari il nero? Il verde è il colore della speranza, ma Essere al verde non è un’espressione promettente.
Questo modo di dire è nato a Firenze secoli fa. Siccome all’epoca non c’erano orologi, per segnare il tempo i fiorentini coloravano la parte inferiore delle candele di verde. Se volevano comprare qualcosa nelle vendite pubbliche, i cittadini di Firenze dovevano offrire più soldi degli altri entro il tempo stabilito. Quando la fiamma aveva consumato quasi tutta la candela ed era quindi arrivata al colore verde, voleva dire che il tempo era scaduto e che gli acquirenti non potevano più fare altre offerte. Da quel momento nacque l’espressione “essere al verde”, che indicava una limitazione o, in ogni caso, una perdita.

5. Fare la gattamorta: perché si dice?

Fare la gattamorta è il tipico atteggiamento di chi, dietro un carattere all’apparenza tranquillo e mansueto, nasconde tutt’altro temperamento come una gattina nasconde i suoi artigli. Curiosamente questa espressione viene utilizzata soltanto al femminile. La gattamorta, in società, è la nemica per eccellenza delle donne perché conquista tutti gli uomini con le sue finte apparenze e riesce ad affascinare nascondendo dietro un velo di falsa innocenza la sua invincibile astuzia. Tuttavia non è solo un’adescatrice, la gattamorta è anche una persona subdola che tende a nascondere le sue azioni o vere intenzioni dietro un velo di ipocrisia, come ci avvertiva già Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi scrivendo:

“Quel frate con quel suo fare di gatta morta, e con quelle sue proposizioni sciocche, io l’ho per un dirittone, e per un impiccione”.

Ma perché si dice fare la gattamorta? Questo modo di dire deriva da una favola dello scrittore greco Esopo, Il gatto e i topi, in cui si spiega che l’atteggiamento strategico usato dal gatto predatore per catturare i topi è fingersi morto. La favola di Esopo inizia nella maniera più classica: “C’era una volta una casa infestata di topi ”e ci descrive un gatto ingegnoso che, dopo averle provate tutte, decide di sdraiarsi a pancia all’aria fingendosi morto, attendendo così che i topi gli si avvicinano. Ma a chiudere la favola è un topo più astuto degli altri che sventa l’inganno del gatto e avverte gli altri di non fare la mossa sbagliata. La strategia del gatto è quindi intelligente, ma risulta inefficace.

Curioso che nella favola di Esopo, poi ripresa anche da Fedro e LaFontaine, si faccia riferimento a un “gatto morto”, mentre nell’uso comune l’espressione sia declinata solo al femminile “gatta morta”. Pare che il detto si sia sviluppato per spiegare le abilità, ritenute tipicamente femminili, di aggirare il prossimo con l’apparenza: nella storia sono le donne le streghe, le fattucchiere, le affabulatrici e, quindi, anche le gatte morte.
Chissà che, nell’era della parità di genere, non ci sia una rivoluzione in atto anche per cambiare i modi di dire. Magari nel prossimo dizionario Treccani della lingua italiana ci troveremo anche un gattomorto; così, per par condicio.

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