

Le memorie dei carnefici di Parigi. Un secolo e mezzo di esecuzioni capitali 1688-1847
- Autore: Clément Henri Sanson
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2020
Mentre la testa spiccata dal corpo veniva mostrata alla folla davanti alla ghigliottina, le palpebre dell’ex regina Maria Antonietta vibravano per un riflesso convulso. Il particolare macabro si apprende dalla testimonianza diretta del boia, Charles Henri Sanson, nella biografia-romanzo-documento del nipote Clément Henri Sanson, autore nel 1863 di un memoriale che in Italia è apparso nel lontano 1925 e che le edizioni milanesi Ghibli hanno riproposto col titolo Le memorie dei carnefici di Parigi. Un secolo e mezzo di esecuzioni capitali 1688-1847 (gennaio 2020, 407 pagine, 24 euro, curato da S. Musitelli) e il fascino dei caratteri di stampa di parecchi decenni fa.
Migliaia di ghigliottinati per gli antenati, più di cento lo score del Sanson del 1800, ma da ultimo di sette generazioni di boia di Stato si dice disgustato dall’incarico pubblico, costretto a vivere nell’ombra, perché i cittadini esecravano chi svolgeva quel compito, pur assistendo in piazza con varie emozioni allo spettacolo delle esecuzioni. Afferma anche di non credere nella pena di morte, di trovarla ripugnante e destinata a essere cancellata dai codici.
Siamo poco oltre il 1860 e la ghigliottina resterà in uso per oltre un altro secolo in Francia. Nel 1977 ha tagliato l’ultima testa di un condannato, un tunisino che aveva torturato e ucciso l’ex fidanzata.
Proprio l’abolizione della pena di morte è l’auspicata “sana riforma” che ha ispirato la decisione di stendere le memorie, “una triste confessione” ammette Sanson, maturata dopo il licenziamento dall’ “ufficio” assolto per decenni. Ricevuta la lettera fatale nel 1847, si era ritirato in un luogo lontano da Parigi e sotto un altro nome.
Clement Henri (1799-1889) era figlio di Henri (1767-1840), boia durante il Terrore e discendeva da Charles-Henri (1739-1806), autore di oltre 2900 esecuzioni dopo la Rivoluzione francese, comprese quelle del re Luigi XVI Capeto, della moglie Maria Antonietta e di Carlotta Corday, assassina per vendetta di Jean Marat, giustiziata in Place de la Concorde nel 1793.
Discendevano tutti dal capostipite e primo boia di famiglia Carlo Sanson de Longval, nato ad Abbeville nel 1635. Gente rispettata i Sanson, scrive il loro epigono, hanno sempre servito i sovrani di Francia, assunto cariche pubbliche nel Ponthieu e uno, Nicola, era un illustre geografo caro a Luigi XIII, tanto che in una visita ad Abbeville il re aveva accettato l’ospitalità dell’amico invece di scegliere altre degne soluzioni. In tal modo aveva precostituito il paradosso di un Borbone alloggiato per due notti sotto il tetto della famiglia d’origine di qualcuno che
“un giorno, in nome di una barbara e sacrilega legge, avrebbe dovuto mettere le sue mani sopra un altro Borbone, sopra un altro re di Francia. Scherzi singolari gioca la sorte!”.
Sembra quanto mai autocritico l’ultimo dei Sanson, ma si direbbe sincero. Dalle sue testimonianze e dai racconti scritti e orali dei familiari apprendiamo del contegno regale di Luigi Capeto, misurato e per niente spaventato sul patibolo. Una dimostrazione di vera maestà nel momento supremo, davanti alla folla e alle truppe, compresi i Marsigliesi, coi cannoni puntati verso la ghigliottina. Temevano un tentativo di liberare il sovrano o di ostacolare l’esecuzione, tanto che il Sanson che dirige le operazioni sul palco sopraelevato riflette tra sé che basterebbero mille uomini risoluti a sottrarlo a quella fine. A detta sempre del nonno di Clement, il re avrebbe pronunciato parole nobili:
“francesi, voi vedete il vostro re pronto a morire per voi. Possa il mio sangue cementare la vostra felicità. Muoio innocente di tutto quello di cui mi si accusa”.
La versione di Sanson differisce da altri resoconti degli ultimi minuti del monarca ghigliottinato, che vedono i boia esercitare qualche brusca violenza. I maltrattamenti ostentati sembrano più credibili, la benevolenza dei boia nei riguardi del morituro non sarebbe passata inosservata, come manifestazione di tiepida fede rivoluzionaria.
Tuttavia, le esecuzioni con quella lama precipitante sembrano umanitarie rispetto alle modalità in uso fino ad allora. I condannati ordinari pativano la decapitazione, con scure o mannaia, sostituita poi dalla ruota, l’impiccagione e per i nemici della Chiesa il rogo, modalità spesso precedute da supplizi. Ai regicidi era riservata l’orrenda pena dello squartamento. In confronto, la ghigliottina si può considerare quasi indolore, ma risparmiamo considerazioni medico-legali sull’eventuale sopravvivenza per qualche minuto di un cervello irrorato ancora di sangue.
Lo stesso Carlo Sanson si era suo malgrado adattato a svolgere, “con estrema tetraggine personale”, l’ufficio di carnefice per conto della Corte di Giustizia di Parigi. Ci porta alla fine del 1600, quando si esercitava ancora la pena della ruota. “Rotto da vivo”, annota il boia, di un condannato per assassinio dopo un furto. Si lasciava che il reo - legato a faccia in su a una ruota montata orizzontalmente sul patibolo - attendesse di spirare tra i tormenti, dopo avergli spezzato le ossa degli arti lunghi. Per subire la morte in pubblico bastava una condanna per falsa testimonianza. Nel 1693, una serva di cucina venne messa a morte dopo torture inaudite. Era accusata di furto domestico.
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