Nella piana di Paestum, circondato da ulivi secolari e dissimili, il Tempio di Hera si erge maestoso nella sua anima di pietra a sfidare i millenni e l’orizzonte, proiettando la sua ombra su un altro tempio, più umile e meno annoso in apparenza, il Santuario del Granato, edificato poco prima dell’anno Mille dell’era cristiana alle falde del monte Calpazio.
Qui l’immagine della Vergine sembra plasmare e custodire con il suo sguardo severo e benevolo l’atmosfera sacra del luogo, impregnandola di silenzio e preghiera. Nella destra regge, amabile e pacioso, il Bambino Gesù; nella mano sinistra stringe una melagrana. Nello stesso orizzonte di un tempo umano e divino, Hera e Maria incrociano il loro sguardi, materializzando nel frutto del melograno la forma del sacro che continua a donarci nutrimento e speranza.
Il melograno, simbolo di amore e fecondità
Con la stessa sincretistica natura emblematica, il melograno (dal latino malum granatum), pianta presente quasi in ogni parte della geografia terrestre, dalla macchia mediterranea all’Asia fino ai confini remoti del subcontinente indiano, configura una linea di relazione tra differenti realtà, umana e divina, ponendosi al centro di uno spazio naturale e geografico e trasformandolo in uno spazio sacro.
La sua stessa morfologia ne fa dunque un asse tra vari mondi, portando a piena maturazione una varietà di elementi simbolici capaci di concentrare altrettanti capisaldi della civiltà antica e pagana e di quella di tradizione cristiana. Il suo colore rosso evoca infatti il sangue, dunque il “sugo della vita” (per citare la definizione di Piero Camporesi), l’essenza vitale; i suoi grani (gli armilli), avvolti in una esile e tenace pellicola, richiamano l’amore e la fecondità.
Nei giardini coltivati, in epoca antica, era raro che mancasse un esemplare di questa pianta. All’ombra delle sue fronde gli amanti erano soliti cercarsi e scambiare promesse di un amore profondo e sincero, benedetto dalla corresponsione, dalla passione e della fertilità.
Il melograno nei mosaici romani e nella Bibbia
Non stupisce pertanto che anche l’arte e la letteratura abbiano attinto e tratto ispirazione da questa pianta e dai suoi preziosi frutti.
Nei mosaici romani che riecheggiano il topos classico dell’“hortus conclusus”, il rosso frutto è un motivo ricorrente e prima ancora, tra le pagine della Bibbia, in particolare nel Cantico dei cantici, è spesso richiamato come immagine di nutrimento, promessa di vita feconda.
In epoca moderna, in un ritratto eseguito dall’artista preraffaelita Gabriel Rossetti, Dante Alighieri è rappresentato di profilo mentre contempla con aria pensosa un melograno, come se ravvisasse in quel frutto una miniatura dell’Empireo e delle volte celesti che visiterà nel "sacrato poema".
Il melograno nella poesia di Giosuè Carducci
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Ma forse l’immagine del melograno è radicata nella memoria dei lettori, quelli almeno che per privilegio di anagrafe hanno dovuto imparare a scuola innumerevoli versi a memoria, grazie soprattutto a una melanconica e struggente poesia di Giosuè Carducci, Pianto antico, dedicata al figlioletto Dante precocemente strappato alla vita quando era ancora un bambino.
Sta di fatto che nel testo carducciano il “verde melograno dai bei vermigli fior” (la pianta dunque, con il frutto e i suoi infiniti semi) resta impresso nella mente come uno stigma per la sua plastica e potente natura di raffigurazione di un dolore virile e rappreso, che nutre in sé al contempo una forza vitale che si irradia dalla Natura e, come la linfa arborea e come il sangue, invade il cuore, invogliandolo quasi a convertire la morte in un rinnovato anelito verso l’esistenza, nel suo miracolo essenziale e creaturale di rigenerazione, di costante rinascita.
Pur nella desolata constatazione della misera condizione umana, della nuda, nera terra che sembra avvolgerci e annullarci nella sua brutale oscurità che contrassegna la tinta e l’umore del carme, la disperazione paterna e una fede laica nel valore germinativo della poesia sembrano mescolarsi nell’aspra dolcezza e nel verde ossimorico del melograno. Come se il cuore di quel bambino si ostinasse a battere e pulsare sotto la scorza e tra le venature di quel frutto acerbo, continuando a maturare e realizzarsi in un’altra metamorfica parvenza, in una diversa e naturale declinazione dell’esistenza.
La “melagrana profumata” di Federico García Lorca
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E come non ricordare, per chiudere questo breve, nostalgico excursus (è possibile che il melograno sia anche la pianta del ritorno? A un’origine? A un succo essenziale della vita umana?) i versi di un altro grande poeta dalla vita e dall’essenza canora aspra e dolce, Federico García Lorca? Il quale, nell’Ode alla Melagrana, scrive:
È la melagrana profumata
un cielo cristallizzato.
Ogni grana è una stella
ogni velo un tramonto.
La melagrana è un cuore
che batte sul seminato,
un cuore sdegnoso
dove non beccano gli uccelli,
un cuore che fuori
è duro come il cuore umano
ma dà a chi lo trafigge
odore e sangue di maggio.
Il melograno è per il poeta andaluso dunque sintesi e compendio del Cosmo, del suo firmamento celeste e della sua consistenza terrestre: un’imago mundi. E rispecchia al contempo il microcosmo del cuore umano, duro e inscalfibile in apparenza, ma dentro tenero e vulnerabile alle trafitture e alle ferite, così da effondere un odore di sangue che è anche l’odore di maggio e dunque della primavera, di una vita che si ostina, nel suo destino celeste e terrestre, nonostante il male, il dolore e la morte, a essere, a fiorire e a dare nutrimento.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: La simbologia del melograno nell’arte e nella letteratura, dalla Bibbia a García Lorca
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