La nobiltà della sconfitta
- Autore: Ivan Morris
- Genere: Romanzi e saggi storici
- Categoria: Saggistica
- Anno di pubblicazione: 2024
I 47 samurai che commisero una nobile vendetta espiandola con il suicidio per harakiri; il filosofo confuciano che nel 1837 guidò la rivolta, sedata nel sangue, della popolazione di Osaka affamata dalla carestia; i kamikaze che cercavano di schiantarsi contro le navi americane, sacrificandosi in gran parte senza riuscire a sfiorarle. Se il mondo occidentale celebra i vincitori, in Giappone vengono esaltati i perdenti, quando il loro insuccesso si verifica in circostanze esemplari. I giapponesi prediligono i decorosi sconfitti: a questo sentimento Ivan Morris dedicò un ampio testo nel 1975, The nobility of failure, più volte pubblicato in versione italiana da diversi editori. Quel lavoro è tornato in stampa da poco col titolo La nobiltà della sconfitta (settembre 2024, 504 pagine), a cura di Marcello Ghilardi e tradotto da Francesca Wagner nella collana Biblioteca Medhelan, casa editrice milanese nata nel 2020, dapprima col marchio Settecolori, e orientata verso proposte editoriali raffinate, con una grafica d’eccellenza.
Morris, esperto occidentale della cultura giapponese, morto un anno dopo la pubblicazione di questo suo lavoro principe - un saggio letterario-narrativo ampio ma tutt’altro che inaccessibile - raggiunse Hiroshima come interprete dopo l’olocausto atomico del 6 agosto 1945. Inglese del 1925, laureato in lingua e letteratura nipponica alla Harvard University, ha firmato saggi sul Giappone antico e moderno e tradotto diverse opere letterarie d’ogni tempo. Stimava Yukio Mishima, a ricordo del quale il libro è dedicato. Lo redasse infatti anche per contestualizzare la morte dello scrittore nazionalista, poeta e drammaturgo di Tokio.
Dissentivamo su molti punti, soprattutto in politica, ma questo non ha mai condizionato la mia ammirazione e la mia amicizia per lui.
In effetti, la curiosità del britannico per le tradizioni eroiche del Giappone cominciò a manifestarsi durante la seconda guerra mondiale. Il rispetto per gli sconfitti gli sembrava in contraddizione con lo stereotipo dei giapponesi sempre formali, forbiti ma attratti ossessivamente dal successo. Proprio il confronto con Mishima gli consentì di comprendere il significato psicologico dell’attenzione ai perdenti. Gli uomini che l’amico Ukio ammirava erano quelli come Oshio Heihachiro, lo studioso di Confucio e impetuoso ispettore di polizia che si uccise pugnalandosi nel 1837 dopo il fallimento dell’insurrezione della fame. O come i membri della Lega del vento divino, che si fecero massacrare nella rivolta del 1876, e i giovani piloti suicidi che morirono in guerra contro l’America. Si rese conto che la simpatia per gli sconfitti coraggiosi non era un capriccio dell’amico ma un sentimento profondamente radicato nel popolo giapponese, che apprezza la nobiltà del sacrificio generoso e disinteressato di se stessi.
Lo stesso ultimo gesto estremo di Mishima, il suicidio plateale nel quartier generale della difesa del Giappone orientale a Tokyo, nel 1970, risulta in linea con la tradizione di eroismo qui descritta da Morris, nel saggio che propone nove monografie di personaggi storici giapponesi, più il capitolo sui piloti suicidi kamikaze.
L’epopea popolare dei 47 ronin è un classico esempio della simpatia per il perdente, tanto condivisa dai giapponesi di ogni età. Il dramma più famoso, che tocca tuttora la spiccata emotività nipponica da venire riproposto sui palcoscenici, dalla televisione, dal cinema e dai fumetti, è nato da un testo del 1748 per le marionette, trasposto poi per il teatro Kabuki. Racconta la vicenda luttuosa, risalente a pochi decenni prima, del signore feudale Asano Naganori, costretto al suicidio rituale (seppuku o harakiri) per avere reagito malamente, in presenza dello shogun, all’atteggiamento offensivo di un samurai di rango elevato.
Quarantasette servitori di Asano, in conseguenza della sua morte declassati a ronin, samurai senza padrone, finsero di disperdersi, aspettando invece il momento giusto per vendicarlo, e uccisero due anni dopo il provocatore. A quel punto, secondo il codice d’onore dei guerrieri, per testimoniare la fedeltà nei confronti del vendicato Asano e per scontare la colpa dell’omicidio di un aristocratico, tutti e quarantasette si dettero la morte in un tragico rituale collettivo. Seppuku indica il solenne suicidio pubblico con auto-sventramento e taglio della testa da parte di un assistente, harakiri il mero sacrificio personale.
Altrettanto nota e sempre amata dai giapponesi è la vicenda storica di Minamoto Yoshitsune (1159-1189), legata alla guerra Genpei, tra il clan capitanato dal fratello maggiore e il clan Taica. Pur combattendo in modo esemplare per la vittoria dei suoi, Yoshitsune venne accusato di aver tradito il germano capoclan e costretto a suicidarsi insieme alla moglie e alla figlia. La sua figura, diventata leggendaria, suscita ancora compassione e ammirazione.
In Giappone sono tante le narrazioni epiche i cui protagonisti vengono considerati eroi, nonostante la sconfitta o il cattivo esito, anzi proprio in virtù della sorte sfortunata o della fine violenta e infelice. Non è in base alla vittoria che la cultura giapponese celebra tradizionalmente i propri campioni.
Il ritrovamento, a trent’anni dalla fine della seconda guerra, del tenente Onoda Hiro, rimasto nascosto nella giungla filippina fino al 1974 per aver rifiutato la sconfitta, venne commentato da un giornalista occidentale come un esempio di fanatismo. All’opposto, i connazionali lo esaltavano invece come valoroso, fedele al giuramento all’imperatore e capace di dimostrare che la lealtà a un ideale è tra i valori più importanti per un giapponese.
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