

Il 25 gennaio 1939 nasceva a Milano Giorgio Gaberscik, in arte Giorgio Gaber. In occasione dell’anniversario della nascita del cantautore, il nostro collaboratore Mario Bonanno analizza testo e contesto della sua canzone iconica La libertà, scritta con Sandro Luporini e pubblicata nel 1972 nell’album Dialogo tra un impegnato e un non so.
Mario Bonanno, critico musicale, è autore di numerosi libri sui cantautori italiani più famosi e quelli spesso (ingiustamente) dimenticati. La casa editrice Stampa Alternativa ha dato alle stampe nel 2013 il suo saggio su Gaber intitolato Io se fossi Dio. L’Apocalisse secondo Gaber.
Vediamo insieme testo, genesi, significato e analisi di Mario Bonanno del brano La libertà.
La libertà di Giorgio Gaber: testo della canzone
Voglio essere libero, libero come un uomo
Vorrei essere libero come un uomo
come un uomo appena nato
che ha di fronte solamente la natura
che cammina dentro un bosco
con la gioia di inseguire un’avventura
Sempre libero e vitale
fa l’amore come fosse un animale
Incosciente come un uomo
compiaciuto della propria libertàLa libertà non è star sopra un albero
non è neanche il volo di un moscone
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazioneVorrei essere libero come un uomo
come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio
solamente nella sua democrazia
Che ha il diritto di votare
e che passa la sua vita a delegare
E nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà
La libertà non è star sopra un albero
non è neanche avere un’opinione
la libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazioneVorrei essere libero come un uomo
come l’uomo più evoluto
che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura
con la forza incontrastata della scienza
Con addosso l’entusiasmo
di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero
sia la sola libertàLa libertà non è star sopra un albero
non è neanche un gesto o un’invenzione
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione
Com’è nata la canzone La libertà di Gaber: il contesto storico
di Mario Bonanno
Non è il caso di cominciare in medias res: gli antefatti sono rivelatori, nella fattispecie prima ancora che dell’acume, del coraggio autoriale di cui era provvisto Giorgio Gaber . Bisogna tenere conto di cosa facesse Gaber prima della rivoluzione copernicana del suo Teatro-Canzone. Inanellava fama e successi divisi tra dischi e tv, ecco cosa faceva. Fama e successi declinati per prime serate, rock d’importazione, torpedo blu, Porta Romana, Cerutti Gino, Mina, Goganga, filibusteria scanzonata con Jannacci (I Due Corsari). Un consenso popolare dietro l’altro, e insomma ce ne vuole di coraggio per mandare all’aria fama & successo consolidati e giocarsi tutto puntando sul nuovo.
Le tappe di avvicinamento alla svolta del Teatro-Canzone risalgono più o meno al 1969 del Signor G ., il disco anomalo, anticipatore dei monologhi e dei brani che di lì a poco comporranno l’ossatura contenutistico-formale degli spettacoli gaberiani. Nell’anno coevo alla strage di Piazza Fontana e all’alba incerta della strategia della tensione, la presa di distanza dalla canzonetta corrisponde per Gaber a una presa di coscienza e insieme a uno stato di necessità. I primi affondi del Nostro ineriscono ai vizi congeniti e a quelli acquisiti dell’italiano-medio. Il Signor G. (Carosello, 1969) inscena il prototipo dell’uomo qualunque: come al solito l’orchestra fa il suo dovere, ma l’attenzione è tutta concentrata stavolta sul contenuto dei monologhi, a cominciare da quello dicotomico e vagamente surreale che dà il titolo a spettacolo e lp susseguente. Come in un attacco da barzelletta (a tesi) ci sono un ricco e un povero (meglio, due bambini: il figlio di un ricco e il figlio di un povero) che dibattono tra loro:
"Io mi chiamo G Io mi chiamo G No non hai capito sono io che mi chiamo G No sei tu che non hai capito mi chiamo G anch’io Ah. Il mio papà è molto importante Il mio papà no Il mio papà è forte sano e intelligente Il mio papà è debole malaticcio e un po’ scemo La mia mamma è molto bella, assomiglia a Brigitte Bardot La mia mamma è brutta bruttissima, la mia mamma assomiglia, la mia mamma non assomiglia 14 Il mio papà ha tre lauree e parla perfettamente cinque lingue Il mio papà ha fatto la terza elementare e parla in dialetto, ma poco perché tartaglia Io sono figlio unico e vivo in una grande casa con diciotto locali spaziosi Io vivo in una casa piccola, praticamente un locale, però c’ho diciotto fratelli".
Per gran parte della traccia (e sotto molti aspetti anche del disco) si va avanti di questo passo. Siamo all’inizio degli anni definiti dallo stesso Gaber come “affollati” e il romantico goliarda dei primi giri (45 e 33) e della tv di Stato si politicizza di conseguenza, proponendo in nuce una forma di spettacolo senza antesignani né riferimenti coevi, caratterizzato dall’alternarsi di ballate e monologhi in prosa. A partire da quest’album, con la neo-complicità di Sandro Luporini ai testi, il Signor G. diverrà insomma l’ideale compagno di viaggio nell’Italia della crisi e della contestazione. Una sorta di alter ego collettivo ‒ di volta in volta goffo, lucido, comico, spietato ‒ con il quale confrontarsi e fare i conti, condividere slanci, rassegnazioni, intuizioni, bilanci, idee.
Il Signor G. è dunque un album prodromo e già intelligente, in decisa contro-tendenza rispetto alla linea edulcorata della canzone melodica del periodo. Il tempo di prenderne atto e con I borghesi (Carosello, 1971) Giorgio Gaber già si concede il bis. I Borghesi è il disco in cui il punto sulla situazione risulta ulteriormente espanso e la polemica comincia ad averne per tutti: chiesa (La chiesa si rinnova), convenzioni (I borghesi), individuo (L’amico), coppia (Ora che non sono più innamorato), in un affresco disincantato di proto-società che sogna la rivoluzione ma in fondo tende al reazionario.


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E se nella title-track, dietro il paravento della filastrocca finto-sciocchina, l’associazione borghesi-porci fa leccare barba e baffi ai contestatori in erba (“i borghesi son tutti dei porci/ più sono grassi più sono lerci”), il valzerino melodrammatico di L’amico accontenta chi è in cerca di maggiore introspezione. Ciò che è importante è che in Gaber e Luporini affiora già l’esigenza di una presa di distanza, quel malcelato bisogno di evasione, dai rapporti e dalle cose (Evasione), che dopo la svolta socio-apocalittica di Io se fossi Dio (1981) si evidenzierà ulteriormente concentrandosi sulla crisi dell’io.
Ancora un po’ di pazienza, sto arrivando alla canzone oggetto di queste note; giusto per contestualizzare un’ultima volta: il 1972 è l’anno del Pinocchio televisivo di Luigi Comencini, del Padrino di Coppola e anche dello scandaloso Ultimo tango a Parigi di Bertolucci, maltrattato dalla censura di Stato. In un’Italia, divenuta frattanto sempre più a mano armata, anche i cantanti di Sanremo inscenano una manifestazione sindacale. Contestare sembrerebbe essere diventata la tendenza del momento.
È in questo clima di rivoluzione e reazionarismo generalizzati che esce Dialogo tra un impegnato e un non so (Carosello, 1972), ennesimo affresco italiano a luci e ombre firmato Gaber-Luporini. Ironia (Lo shampoo) e idiosincrasia (Il Signor G. e l’amore). Politica e società in declinazione cronachistica (Nixon, Gli operai) e più lata (Un’idea, La libertà): Gaber e Luporini redigono le pagine di un quaderno di lagnanze lucido e puntuale, monologhi sferzanti alternati a canzoni feroci. Il Signor G. è cresciuto in maniera esponenziale alla sua presa di coscienza. A partire da qui il mondo comincia a fargli male, male davvero. E G. lo dice. Lo dichiara. Lo urla. Lo denuncia, senza falsi pudori, né mezzi termini.
Il disco è un attacco verbale al cuore della società. Al radicalismo di certa politica ottusa, miope, narcisista, presa soltanto da sé stessa. Ma non scampa nemmeno il cittadino comune, politicizzato o meno che possa essere. I dialoghi reiterati tra l’impiegato e l’extraparlamentare classico di sinistra risultano, in tal senso, illuminanti (la vera rivoluzione si farebbe mangiandosi un’idea). Come anche gli esempi di concetti e atteggiamenti reazionari disseminati in tutto il disco. Il marito cornuto e consapevole, l’antirazzista smentito dai fatti, l’impegnato per moda più che per convinzione (“Ho voluto andare ad una manifestazione, i compagni, la lotta di classe, tante cose belle che ho nella testa ma non ancora nella pelle”). Qualche intermezzo comico (come nel caso del già citato Shampoo) non stempera il clima angusto, di impasse esistenziale, che grava sul disco. Si ride e si mastica spesso amaro. E in questo coacervo socio-ontologico, il manifesto antiretorico (anche se con la sua pigra assunzione retorica la canzone dovrà fare i conti fino all’oggi dello spot televisivo) di La libertà .
La libertà: analisi del testo di Gaber
Il brano La libertà è indicativo della nuova scrittura gaberiana: semanticamente semplice, ma contenutisticamente stratificata; una scrittura che non dà nulla per scontato e quindi una scrittura (auto)riflessiva e mai banale. Le prime strofe anelano (?) a un provocatorio ritorno allo stato di natura:
Vorrei essere libero come un uomo …appena nato (cioè intonso, incontaminato, non ancora corrotto da sovrastrutture di alcun tipo)
...che ha di fronte solamente la natura
che cammina dentro un bosco
con la gioia di inseguire un’avventura
Sempre libero e vitale …compiaciuto della propria libertà.
Come si può vedere, un uomo filosoficamente rimandabile al “buon selvaggio” rousseauiano, di fatto progenitore individualista e immaturo dell’uomo-realizzato-civilizzato che - a partire dalla terza strofa - rintraccia nella democrazia la sua forma di governo ideale; di pari passo al compimento di un processo evolutivo (razionale e sociale) che persino “nel farsi comandare” (democraticamente, s’intende) rintraccia la “sua nuova libertà”.
Vorrei essere libero come un uomo
che ha il diritto di votare
E che passa la sua vita a delegare
E nel farsi comandare
ha trovato la sua nuova libertà
Il 1969 ha dunque inaugurato col botto alla Banca dell’Agricoltura di Milano il lungo decennio della strategia della tensione, forse per questo, appena tre anni dopo, in un album che sembra, per il resto, remare in direzione contraria, La libertà compatta il suo discorso entro collanti tematici di solidarismo sociale e politico. Anni dopo verranno i tratteggi ironici e furoreggianti del voto come pantomima rituale (Le elezioni, 1976) e della democrazia come “superstizione” (Io se fossi Dio, 1980) ma il Gaber di La libertà è il Gaber che ancora ci crede, o si ostina a crederci, con tutte le forze. Il concetto portante del brano-manifesto si esplicita in un refrain dove il significato di libertà si compie del tutto, caricandosi del valore autentico della partecipazione:
La libertà non è star sopra un albero
Non è neanche avere un’opinione
La libertà non è uno spazio libero
Libertà è partecipazione
Al netto di banalizzazioni concettuali, retoricismi, aggettivazioni apologetiche, l’idea di libertà, per Gaber e Luporini, sembrerebbe rifuggire da scorciatoie qualificative. Nella loro delineazione del concetto i due procedono infatti attraverso reiterata negazione - “La libertà non è star sopra un albero/ non è neanche il volo di un moscone … non è uno spazio libero (…) non è avere un’opinione -, sfociata soltanto infine nell’affermazione categorica della “partecipazione” (“libertà è partecipazione”). Una connotazione ulteriore, estesa, comunitaria, che richiama stavolta il Rousseau del Contratto sociale: solo mediante la rinuncia consapevole ai propri interessi - cedendo cioè ogni diritto privato a uno Stato partecipativo - l’uomo potrà addivenire alla piena emancipazione, parimenti sociale ed esistenziale.
Vorrei essere libero come un uomo
Come l’uomo più evoluto
che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura
con la forza incontrastata della scienza
Con addosso l’entusiasmo
di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero
sia la sola libertà
Le due strofe finali delineano quindi l’idea dell’uomo nuovo gaberiano: un uomo che dopo essersi sgravato dai lacciuoli del puro istinto e dell’individualismo propri dello stato di natura, approda a una collettivizzazione del concetto di libertà. Sorretto dalla forza del progresso scientifico raggiunto, l’uomo nuovo (“l’uomo più evoluto”) gaberiano, arriva adesso a sfidare la natura “con la forza incontrastata della scienza"), intendendo al tempo stesso le leggi che regolano il cosmo e quelle di un pensiero cosciente, alveo di effettivo affrancamento (un uomo “(…convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà”).
Con un finale sorprendentemente fiduciario, Gaber e Luporini licenziano dunque il testo forse più utopico e propositivo del loro canzoniere: in un’Italia settaria, affetta da assolutismo (di Stato, di Chiesa, di Destra estrema, di Sinistra estrema), scossa da bombe e lacerazioni ideologiche, La libertà è una canzone pedagogica, un filino conciliatoria ma senza sconti, tesa a indicare la direzione per pervenire al traguardo di un’intelligenza sociale che soltanto nella coniugazione di individuo e collettivo rintraccia l’espressione più compiuta.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “La libertà” di Giorgio Gaber: significato e analisi del testo della canzone
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