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Storia della letteratura

“La città” di Costantino Kavafis: una poesia sull’impossibilità della fuga

L'enigmatica poesia di Costantino Kavafis, “La città”, ci insegna che è impossibile scappare da noi stessi. Con un tono sapienziale Kavafis narra la radice dell'inquietudine umana e ci insegna ad affrontare l'ignoto. Scopriamone testo, analisi e significato.

Alice Figini
Alice Figini Pubblicato il 29-04-2023
“La città” di Costantino Kavafis: una poesia sull'impossibilità della fuga

C’è un fascino sapienziale nella poesia di Costantino Kavafis che sembra sempre metterci nel “mezzo di una verità”. Il poeta greco, nato ad Alessandria d’Egitto il 29 aprile 1863, non utilizza mai una parola che sia falsa e riesce a dare voce a un autentico “canto dell’anima” che possiede una ineludibile eco morale.

Ci risuona nelle orecchie come la voce roboante di una conchiglia che abbia conservato al suo interno il segreto tempestoso del mare. La poesia di Kavafis è dotata di una melodia ineffabile che si accorda perfettamente con il nostro sentire interiore e riesce a incanalare il nostro spirito verso la strada giusta.
Leggere Costantino Kavafis ci commuove e, al contempo, ci consola: i suoi versi ci muovono alle lacrime perché riescono a comprendere la radice dell’inquietudine umana, lo smarrimento e lo spaesamento dell’uomo dinnanzi all’ignoto rappresentato dal suo destino, però ci confortano nella loro capacità di parlare direttamente alla nostra anima, bisbigliandole consigli quasi oracolari.
In questo Kavafis sembra anticipare la psicanalisi traducendola in una forma di poesia che ben si adatta al dialogo con l’inconscio. È il caso, ad esempio, della lirica La città in cui il poeta greco sembra descriverci un luogo utopico, surreale, che si rivela essere un teatro desolato del nostro Io interiore.

Lo scenario apocalittico che Kavafis ci pone dinnanzi è come un quadro di De Chirico, un deserto abitato da manichini angoscianti, e sembra esplorare un lato nascosto della realtà che in verità conosciamo perfettamente perché rappresenta il baratro abissale della nostra incertezza. Ne risulta un testo enigmatico dalla forte tensione metafisica che ci proietta nel profondo del nostro essere. La morale celata nei versi di Kavafis è semplice: non possiamo sfuggire a noi stessi, la sua città labirintica e misteriosa è una proiezione della mente.

La città è contenuta nella raccolta Tutte le poesie, edita da Donzelli nel 2019 con la curatela di Paola Minucci.

Scopriamone testo, analisi e commento.

“La città” di Costantino Kavafis: testo

Dicesti: «Andrò in un’altra terra, su un altro mare.
Ci sarà una città meglio di questa.
Ogni mio sforzo è una condanna scritta;
e il mio cuore è sepolto come un morto.
In questo marasma quanto durerà la mente?
Ovunque giro l’occhio, ovunque guardo
vedo le nere macerie della mia vita, qui
dove tanti anni ho trascorso, distrutto e rovinato».

Non troverai nuove terre, non troverai altri mari.
Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade
girerai. Negli stessi quartieri invecchierai;
e in queste stesse case imbiancherai.
Finirai sempre in questa città.
Verso altri luoghi – non sperare –
non c’è nave per te, non c’è altra via.
Come hai distrutto la tua vita qui
in questo cantuccio, nel mondo intero l’hai perduta.

“La città” di Costantino Kavafis: analisi e commento

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Nessuno può fuggire dalle proprie radici, dal proprio passato. La città enigmatica e oscura descritta da Costantino Kavafis si fa emblema di questo messaggio.
Nelle rovine di questa cittadina apocalittica possiamo scorgere un riflesso di Alessandria d’Egitto, luogo in cui Kavafis trascorse tutta la vita. Le macerie e i resti - metafora del passato - erano una costante del panorama alessandrino, intriso di storia e di ellenismo.
All’interlocutore che vuole partire, convinto di poter trovare una vita migliore altrove, il poeta ricorda che le sue angosce, le sue ossessioni, le ragioni intime della sua fuga partiranno con lui e diverranno come un tarlo nella sua mente.

Ti verrà dietro la città

“Non credere di fuggire partendo”, ci ammonisce Kavafis. Nessuno può fuggire da sé stesso perché un nuovo paesaggio esteriore non modificherà la nostra visione interiore.

Come hai distrutto la tua vita qui
in questo cantuccio, nel mondo intero l’hai perduta.

La poesia La città ha un tono drammatico che racchiude un potente ammonimento. Non vuole consolarci Kavafis, ma il suo scopo è proprio farci aprire gli occhi e accettare la realtà. Parla con la calma serafica di un Buddha, di chi ha guadagnato la divina indifferenza degli Dei e osserva l’uomo, la sua tragedia umana, con distacco.
La lirica ha la struttura di una favola: il protagonista si lamenta di vedere attorno a sé solo solitudine e rovina e dà la colpa di quella condizione alla città in cui è nato, crede che partire gli garantirà la felicità invocata invano. Il saggio poeta invece lo invita a riflettere sulla sua condizione: se l’uomo non sarà in grado di trovare la bellezza dentro di sé nessuna nuova città potrà donargliela, questa è la morale conclusiva.

La misteriosa città descritta da Kavafis non è quindi un luogo fisico, ma lo specchio riflesso di un mondo mentale. Se un uomo sente di aver sprecato la propria esistenza nessuna fuga gliela ridarà indietro.
Il tono di Costantino Kavafis è drammatico e, a tratti, deprimente, non offre alcun appiglio, però garantisce una visione senza veli - in puro stile classico, da tragedia - della realtà effettiva.
L’aspetto consolatorio della lirica è che il poeta greco, con la saggezza degli antichi, ci invita a trovare la pace dentro di noi. Rimette tutto nelle nostre mani, saremo noi a costruire la nostra “Città della gioia”, poiché abbiamo le capacità per farlo e anche la speranza. Costantino Kavafis rimette tutto all’uomo e sembra fare eco a un massima del poeta latino Orazio:

caelum non animum mutant qui trans mare currunt

Chi attraversa il mare cambia cielo, ma non il proprio animo. Con lo stesso tono sapienziale, mascherato con una visione astratta, Costantino Kavafis ci invita invece a cambiare animo, a ripartire dall’Essere e a non farci trarre in inganno dalla superficialità di uno scenario. Nell’abolire la speranza con quel verso lapidario “non sperare” Kavafis invece, come un oracolo, la fa risorgere.

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