La bellezza non ha prezzo. L’autobiografia
- Autore: Zdeněk Zeman, Andrea Di Caro
- Genere: Storie vere
- Casa editrice: Rizzoli
- Anno di pubblicazione: 2022
Oggetto di passione pura da parte dei suoi tanti estimatori e di altrettanto puro tormento per i non pochi denigratori; amato incondizionatamente da pubblico e tifosi e osteggiato dai poteri forti, l’allenatore di origine boema Zdeněk Zeman, nato a Praga il 12 maggio 1947, trasferitosi in Italia a partire dal 1969 - subito dopo il fallimento della “Primavera di Praga” e la repressione sovietica - si racconta in un libro autobiografico scritto con il giornalista Andrea Di Caro.
Il titolo La bellezza non ha prezzo (Rizzoli, 2022) è integralmente zemaniano, non dissimile dalle sovrapposizioni e accelerazioni caratteristiche del suo gioco tutto velocità e dinamismo che riflette nitidamente il suo stile e la sua peculiare filosofia di vita. Il libro originariamente avrebbe dovuto intitolarsi, come racconta l’autore stesso nell’introduzione, Il Prezzo della Bellezza, ma sarebbe stata un’epigrafe recriminatoria, che avrebbe inevitabilmente orientato la narrazione sul registro del rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato. Ed ecco invece la triangolazione compiuta e folgorante che riporta nella direzione giusta, all’essenza autentica di entusiasmo, generosità e passione, la vicenda umana e sportiva del tecnico, così da poter raccontare e trasmettere “quanta vita c’è stata in campo e fuori”. Perché prima di ogni altra cosa, Zeman è un verace uomo di sport e la sua vita è un tributo e una testimonianza alla fatica, al sudore, alla dignità dello sport, sia che si celebri nei campi sterrati e polverosi di una provincia remota, piuttosto che nei santuari e nei “prati perfetti” del calcio che conta.
Una dignità da difendere e promuovere, a rischio di ostracismi e ingiustizie patite sulla propria pelle, affinchè la bellezza e la passione che ne consustanziano ogni sforzo si affermino e risplendano più di ogni falso dogma, compreso quello della vittoria ad ogni costo.
Le idee zemaniane, precorritrici e moderne, la proposta incessante di un credo tattico (quel 4-3-3, marchio del calcio cecoslovacco e ottimale per coprire il terreno di gioco esaltando le individualità dei singoli mediante il gioco armonico della squadra) hanno rappresentato una salutifera ventata di novità nel panorama asfittico del calcio italiano a cavallo degli anni duemila, educando generazioni di atleti e giovani ai sani principi dello sport, ottenendo il riconoscimento sincero di giocatori e colleghi:
“Zeman è unico e inimitabile. Essere allenati da lui è il massimo”
ha dichiarato il suo pupillo Francesco Totti; e ancora:
“Ha cercato di vincere attraverso il merito e la bellezza in un Paese che non sempre riconosce il merito e la bellezza”
ebbe a sostenere un altro grande maestro di calcio e di vita, Arrigo Sacchi.
La modernità dei suoi metodi, sorretta da un’etica rigorosa e da una dedizione umile e antica, da uomo di altri tempi, al lavoro e allo spirito di sacrificio (memorabili durante gli allenamenti i saliscendi dei suoi giocatori sui gradoni dello stadio e le lunghe scarpinate nei boschi) lo ha reso un’icona anacronistica e affascinante del calcio romantico fondato su onestà e integrità di principi, refrattaria alle tentazioni e alle regole esasperate dello show-business e dell’Alta Finanza che via via hanno segnato uno scarto epocale, di valori e abitudini, nella mentalità e nel senso comune, non solo in ambito calcistico.
Per queste e mille altre ragioni Zeman è assurto ormai nell’immaginario popolare al rilievo di un personaggio cult, capace con la sua flemma da attore stile Bogart di parlare con un’espressione eloquente del volto pur restando zitto; fonte di ispirazione di canzoni, tesi di laurea, opere letterarie (a lui si è ispirato lo scrittore Manlio Cancogni per il protagonista del romanzo “Il Mister”) e, grazie al suo profilo iconico e alla sigaretta eternamente accesa in punta di labbra, è divenuto finanche un aggettivo (“zemaniano”, qualificativo - come “felliniano” - di un modo di essere e di una peculiare visione del mondo).
Zemanlandia, epiteto nato tra gli spalti dello stadio Zaccheria negli anni del Foggia dei miracoli, canonizzato da un neologismo nel Vocabolario Treccani, è ormai un’antonomasia celebre quanto il suo inventore, l’avamposto di un territorio favoloso, rintracciabile nelle carte geografiche dell’utopia e del mito. Come scrive nella sua bella postfazione Andrea Di Caro:
“tifare per una squadra di Zeman significava essere all’avanguardia, non perdere mai la speranza, sapere che l’immagine di una sonora sconfitta poteva tramutarsi all’improvviso in una grande rimonta. Ma anche poter prendere un gol folle in contropiede con la difesa a centrocampo mentre eri in vantaggio. Tutto o nulla, azzardo senza mezze misure. Emozioni e adrenalina allo stato puro."
E forse, tra tanti altri talenti, acclarati o misconosciuti, consiste in ciò il merito più grande dell’uomo prima ancora che dell’allenatore: l’esempio di come un’utopia possa realizzarsi nella vita di ogni giorno attraverso la libertà e la coerenza del comportamento, perseguendo nonostante tutto il rispetto delle regole e della parola data, continuando a insegnare e divertire anteponendo verità e bellezza ad ogni compromesso o interesse particolare. Se è vero che il Destino è nel nome, Zdeněk (dalla radice “Zidati” ) vuol dire “costruire”, “creare” ed è ciò che il tecnico boemo ha sempre cercato di fare, coniugando il piacere del divertimento con l’etica e la responsabilità dell’insegnamento (“Delectare atque docere”).
Pochi come Zeman sono stati capaci di coniugare, restando coerenti con se stessi, tensioni contrarie come impassibilità ed empatia; concretezza e immaginario; lucido realismo e utopia. Una conciliazione di opposti che il tecnico boemo ha custodito con formidabile equilibrio con il passare del tempo fino a consolidare quell’immagine che lo ha reso un personaggio celebre e discusso, ma pur sempre riconoscibile nella sua forte struttura identitaria. Ne troviamo ulteriore conferma in questa autobiografia in cui il tempo storico della vicenda umana e professionale si immerge in un tempo antropologico e culturale più ampio che attraversa anche il nostro tempo di non coraggio, di dimissione di valori e principi non soltanto sportivi, in un serrato corpo a corpo con fatti, personaggi, contesti, come per raccogliere e ricomporre la testimonianza di una vita nella percezione di un sentimento inviolabile della bellezza, da intendersi come uno spazio templare che consiste al fondo di ogni gesto e azione, consustanziando nella sua essenza anche il valore morale, la giustizia, l’onore dell’esistenza umana.
Afferma Zeman nel capitolo introduttivo:
“Tutto ciò che ho fatto è stato mosso dal concetto di bellezza e dal sentirmi appagato nel trovarla o anche solo nel cercarla. Un filo rosso che ha unito il mio percorso di uomo e di allenatore.”
Ed è declinando ogni talento della bellezza, quasi che scrivere fosse un gesto lieve e carezzevole, come tenere tra le dita una rosa, che questo libro deve essere letto. Sfogliandone come petali esili e pungenti le pagine e i capitoli, osservandone ogni minimo riflesso o screziatura per ottenere una visione completa e veritiera da cui, di certo, ogni lettore saprà trarre nutrimento. A cominciare dalla “Bellezza delle radici”, nella Praga della Guerra fredda soggetta ai diktat del comunismo, in cui , nonostante restrizioni e offese alla libertà individuale e collettiva, il piccolo Zdenek riceve le prime decisive folgorazioni educando la sua vocazione allo sport all’ombra della rettitudine paterna e di un nonno che lo conduce per la prima volta ad assistere a una gara ai bordi di un campo di calcio.
E poi “La bellezza di un cielo senza nuvole” , quello siciliano, del sole e della luce perenne, dove un’altra figura tutelare, lo zio Cesto, anch’egli allenatore, lo avvia, oltre che al fumo della sigaretta (destinata a diventare una vera compagna di vita) alla vocazione di istruttore e allenatore che lo porterà, nell’arco di un decennio a costruire il settore giovanile del Palermo, destinato per il suo gioco e i metodi all’avanguardia, ad essere salutato dalla stampa nazionale con l’epiteto lusinghiero di “piccola Olanda rosanero”; e dove la bellezza si manifesterà anche nell’incontro con la donna della vita, Chiara, ben presto diventata sua moglie, che “avesse giocato a calcio sarebbe stata un giocatore a tutto campo”.
La bellezza è nel gioco, nella fatica, nella città che lo ha accolto all’apice della sua carriera: Roma, città-mondo, in cui ha avuto la possibilità di allenare entrambe le prestigiose squadre cittadine e dove da molti anni stabilmente risiede. Ma la bellezza per Zeman è soprattutto riflessa nella capacità di rialzarsi e di ripartire continuando a regalare emozioni ai tifosi, alla gente; nonostante gli ostracismi, i deferimenti, i nemici visibili o invisibili.
Bellezza è saper "dire no”, rifiutando e denunciando le logiche di un calcio sempre più fuorilegge in cui, paradossalmente, “a pagare non era chi commetteva reati, ma chi li denunciava”.
Bellezza è saper “perdere a testa alta” ,malgrado gli insulti di chi alla fine degli anni novanta, sentendosi tirato in ballo dalle sue accuse circostanziate (non si trascuri un dettaglio: Zeman da giovane si laureò all’Isef con una tesi sulla medicina sportiva), su doping farmaceutico e amministrativo, e altre aberrazioni di un calcio già visibilmente malato, lo definì folle, terrorista, “un invidioso che parla perché non ha mai vinto niente”.
Gli esergo all’inizio di ogni nuovo capitolo, intervallando motti e sentenze zemaniani a giudizi e commenti di titoli di giornale e personaggi del mondo del calcio, possono essere considerati un ipertesto gustoso e significativo, sorta di piccola enciclopedia tascabile del mondo di Zemanlandia (basterebbe, per tutte, nel capitolo 5 ,la seguente perla:
“Lo 0-0 è un risultato che non mi piace. E anche l’1-0 non mi basta se il tifoso non si è divertito. Il calcio è spettacolo e il gol è la sua essenza.
Concetti chiave ribaditi e sviluppati in ogni pagina di questo libro che alterna felicemente rimemorazione mitobiografica, confessioni sincere e riflessione antropologica. In particolare sono due le immagini che si stagliano da queste pagine. La prima, realistica e potentemente simbolica, è quella dello scavalcamento. Bellezza è anche superare continunuamente un limite, che può essere la recinzione che Zdenek bambino oltrepassava con un salto nella Praga dell’infanzia per andare a giocare e allenarsi nel campo da gioco dei grandi, quasi a rintracciarvi ancora in boccio lapremessa e promessa di un destino; immagine che si ripete, anni dopo, con minime varianti, in terra di Sicilia con il giovane allenatore e i suoi giocatori che scavalcano un altro muretto per raggiungere il campo di allenamento. C’è un senso di fatica, di sforzo in questa immagine reiterata, che cha la solennità di un giuramento. Nessun risultato può essere raggiungibile se non lo si persegue con tenacia e impegno quotidiano, senza mai perdere, al contempo, il dono di una grazia, di una leggerezza infantile che renda il lavoro bello e divertente per chi lo compie ancor prima che per chi ne vedrà, assistendo allo spettacolo della partita, i risultati sul terreno di gioco.
L’altra immagine, implicita, desumibile dalle riflessioni e i consuntivi che il mister boemo dissemina in ogni pagina del suo racconto, è se possibile ancora più significante: è quella del lampadoforo e si intenda nell’accezione dantesca, con un’intenzione e un sentimento non dissimile dalle parole che Stazio rivolge al suo Virgilio nel XXI canto del Purgatorio:
“quel che va di notte/ che porta il lume dietro e sé non giova”.
Non diversamente dal “dolcissimo poeta”, anche nella vocazione di Zeman, nella sua vita di insegnamento e di formazione dei giovani si può avvertire la stessa cadenza, lo stesso alone severo e lieve di colui che nel buio avanza e indica la via a quanti lo seguono con fiducia e speranza. È forse questo il destino che nobilita l’opera di ogni vero maestro: spendere il proprio dono per illuminare gli altri, anziché se stessi, indicando una strada, mostrando loro il metodo e la direzione da seguire, appagandosi alla fine della consapevolezza “di aver vinto” sempre e comunque, sia pure “con la bacheca vuota”, come recita, a mo di suggello, il capitolo conclusivo dell’autobiografia; e di cui troviamo riscontro con la lucida consapevolezza e la sprezzatura del mister boemo, fin dalle prime righe dell’introduzione:
“Non sono mai entrato in campo, non ho mai alzato le braccia, non ho mai esultato. Al massimo ho applaudito se un gol era figlio di una giocata provata e riprovata in allenamento o un grande gesto tecnico individuale, anche di un avversario a volte. Sono stato abbracciato e festeggiato dopo una rete o una partita vinta, ma non l’ho fatto mai io per primo. Ho sempre pensato che il mio lavoro, il mio impegno, il mio obiettivo e la mia soddisfazione consistessero nel far provare emozioni agli altri.”
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