

Il 4 gennaio 1960 una Facel Vega FV3B, macchina prodotta solo per tre anni e oramai diventata un oggetto da collezione, mentre percorre la dipartimentale 606 in “un non luogo che si attraversa senza prestarvi attenzione, per andare da un punto all’altro dell’atlante stradale”, urta un platano, fa un testacoda e si schianta contro un secondo albero, arrestando così la sua corsa folle e proiettando fuori gli individui nell’abitacolo. Un solo passeggero rimane all’interno, incastrato; il cadavere, che verrà poi estratto dalle lamiere, è quello del quarantaseienne Albert Camus.
La morte inaspettata dell’autore de Lo straniero, Premio Nobel meno di tre anni prima, getta il mondo letterario francese ed europeo nello sconcerto. Ma il dolore maggiore è quello di amici, parenti e soprattutto delle donne che amava e che lo amavano di un amore incondizionato. E proprio su quest’ultimo aspetto si sofferma il meraviglioso e delicatissimo romanzo di Elena Rui Vedove di Camus, edito da pochi giorni nel catalogo delL’orma editore.
“Vedove di Camus”: trama del libro


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Frutto di un’attenta documentazione, Vedove di Camus dà voce a quattro donne fondamentali nella storia dello scrittore francese, mescolando sapientemente nel loro racconto numerosi piani temporali. Se infatti il fulcro di ogni capitolo è lo strazio detonato nelle loro esistenze subito dopo la notizia dell’incidente fatale, Elena Rui spazia, fra ricordi e notizie biografiche, lungo tutte le parentesi di vita, muovendosi con maestria dal lutto ai primi incontri, dai giorni nostri agli anniversari della morte, sfaccettando gli stati d’animo in un via vai cronologico che dà vita a un mosaico vivido e completo.
Maria si era fatta da parte: a poco più di vent’anni non si vedeva amante di un uomo sposato con progetti di paternità. Nei quattro anni successivi, Francine si era sentita al sicuro: Albert aveva preso a cuore il suo ruolo di padre ed era, a suo modo, presente. Col senno di poi, le sembrava chiaro che in quel periodo, quei quattro anni in cui i due amanti non si erano visti né scritti, Albert si era investito con slancio nella vita familiare anche per dimenticare Maria Casarès, ma non ci era riuscito. Così tutto era ricominciato ancora più seriamente nel 1948: una vera e propria vita parallela di cui non avevano tardato a trapelare indizi. All’inizio non aveva voluto coglierli, ma un giorno, dopo tre anni di menzogne, era stato proprio lui a confessarle tutto. Da allora Maria non aveva mai smesso di esistere nella sua mente come incarnazione della donna ideale a cui non sarebbe mai riuscita a somigliare.
La prima a prendere la parola è la moglie, Francine, stretta fra una vita coniugale non soddisfacente e i tradimenti conosciuti e ammessi, e sempre presente negli alti e bassi, artistici e pubblici, del marito. Seguono le voci di Catherine Sellers, soprannominata “Sherlock Holmes”, consapevole che “rendersi preziosa e irraggiungibile come Maria: è questa la chiave per tenersi stretto Albert Camus”, e di Mette Ivers, detta semplicemente “Mi”, artista e futura compagna dell’immenso illustratore Sempé la cui relazione con lo scrittore resta nell’anonimato fino alla pubblicazione del Cahier de l’Herne dedicato a Camus, decenni dopo la sua scomparsa. L’ultimo capitolo, infine, è quello destinato all’“Unica”, Maria Casarès, l’attrice cui Albert Camus ha indirizzato alcune delle più intense lettere d’amore mai scritte; la loro passione ha attraversato le loro esistenze con una costanza indefessa, nonostante si lascino e si ritrovino a singhiozzo, uniti dall’amore per la vita e da quello per il teatro.
Francine Faure è morta e i rapporti di Casarès con Camus non hanno più bisogno di essere evocati per sottintesi. Maria inizia a parlare apertamente di amore, di perdita, di dolore. Scrive che non si è appropriata di nulla che non fosse già libero, perché è così che funziona, sempre, il sentimento amoroso. Rimarca in modo implicito la sua differenza rispetto a un’interlocutrice assente: mai, neppure nei primi anni di grande e divorante passione, Maria ha avuto la tentazione di ostacolare legami successivi, instaurati da Albert con altre donne, certa che si sarebbero aggiunti al loro senza rimpiazzarlo. Racconta che Albert si è comportato allo stesso modo con lei e che quella reciproca tolleranza ha richiesto un lavoro sull’ego, uno sforzo continuo per disinnescare gli automatismi legati a un’idea convenzionale del mondo e degli esseri umani.
Con questa polifonia a quattro tonalità, spesso in contrasto ma non di rado anche in armonia fra loro, si delinea la figura di un grande della letteratura europea, certo nei suoi aspetti prettamente artistici (la crisi seguita al Nobel, gli incontri con gli altri scrittori e intellettuali dell’epoca, come anche la solitudine necessaria alla scrittura o il costante e quotidiano lavoro dietro le brutte copie e nelle regie teatrali), ma anche e soprattutto il suo lato più umano. D’altronde, sia il manoscritto incompleto rinvenuto nella carcassa dell’automobile (che poi diventerà Il primo uomo, pubblicato postumo) che le lettere, passate di mano in mano, nascoste, prima interdette e poi riprese, pubblicate e commentate, fanno di queste pagine una dolce e profonda indagine sui “resti”. Attraversate le fasi del lutto, infatti, che se ne deve fare di tutto ciò che resta, tra ricordi e brogliacci? In questo Camus, con la sua scrittura pubblica e privata così profondamente intessuta con la sua vita e la sua epoca, è stato di certo un campo di indagine assai prolifico.
Abbiamo incontrato l’autrice al Salone del Libro di Torino, seduti intorno alla scacchiera dello stand L’orma, per porle alcune domande sulla sua opera.
L’intervista a Elena Rui
- Partiamo dal personaggio onnipresente e, al contempo, quello che se ne sta più in sordina. Perché Camus?
Albert Camus è un autore che ammiro e di cui ho riletto integralmente più opere, cosa che non mi capita spesso, neppure con autori che amo molto. Lo straniero credo di averlo letto e riletto quattro o cinque volte, così come La caduta, libro che amo particolarmente. C’erano poi testi che conoscevo meno, ma che negli ultimi anni ho avuto voglia di esplorare, per esempio i suoi racconti.
La sua morte prematura, a tre anni dal Nobel, in circostanze a dir poco assurde, il fatto che sia morto con il suo editore e avendo con sé un manoscritto incompiuto sono fatti che affascinano particolarmente chi scrive. Forse per questo a un certo punto ho avuto voglia di ampliare la mia conoscenza di Camus anche da un punto di vista biografico, ma senza un progetto preciso: mi son messa ad ascoltare podcast sulla sua vita, le interviste della figlia, ho letto due grosse biografie. Così è nata la curiosità per la sua vita sentimentale e la documentazione si è allargata alla vita privata e pubblica delle donne fra cui si divideva poco prima della sua morte: la moglie Francine, le attrici Maria Casares e Catherine Sellers e la giovane pittrice Mette Ivers.
Mi è sembrato che nelle ultime relazioni amorose di Camus ci fosse la materia per portare avanti una riflessione su temi che io esploro da sempre nei miei libri.
- Vedove , solitamente, è un termine che ha senso al plurale solo se anche i mariti sono di pari numero. Nel testo è a Francine, la moglie, che spetta questo ruolo; poi però il titolo allarga a tutte questa definizione. Perché?
Perché volevo che fosse chiaro fin dall’inizio questo paradosso: sì, c’era una moglie istituzionale ma, in realtà, Albert Camus intratteneva altre tre relazioni molto importanti nella sua vita. Non m’interessavano le avventure o gli incontri occasionali: quelli che io racconto sono i rapporti duraturi e stabili che erano in corso nel momento in cui è morto. È paradossale e nello stesso tempo incontestabile che Camus abbia lasciato vedove quattro donne.
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- La rete sentimentale prima e il lutto poi non permettono certo legami di sororità, eppure le quattro donne si incontrano, si parlano. Come definiresti i loro rapporti?
Ci sono molti aspetti interessanti nei loro legami interpersonali: per esempio, Mette Ivers e Catherine Sellers si sono frequentate per consolarsi a vicenda dopo il tragico incidente. Ho trovato questo lato del loro lutto appassionante e fecondo da un punto di vista narrativo. Mi sono basata sui diari di Catherine Sellers per ricostruire i loro incontri e i loro scambi, ma lavorando d’immaginazione. Il mio, ripetiamolo, è un romanzo.
Un secondo aspetto che mi aveva attirata e incuriosita era la fissazione di Francine per Maria Casarès. Lo abbiamo già detto, Maria Casarès non era l’Unica, per quanto Camus la chiamasse cosi, eppure Francine era davvero ossessionata da lei, come se fosse la sua antagonista assoluta.
- Riusciresti a indicare un aggettivo per riassumere ognuna di queste quattro donne?
Non ci ho mai riflettuto. Premetto che io ho bisogno di voler bene ai miei personaggi; l’empatia nei loro confronti è un presupposto imprescindibile: faccio fatica a liquidarli con un aggettivo. Riflettendoci, per prestarmi al gioco, per Casarès potrei forse dire “libera” e, per contrasto, definirei Francine “dipendente”, da tutti i punti di vista, soprattutto affettivo e materiale.
Catherine Sellers è invece “tragica”. Ho sofferto davvero leggendo i suoi diari, tanto da dover poi prenderne le distanze emotive per poter ottenere lo stile e il tono che cercavo: volevo evitare il lirismo, l’eccesso di pathos. Nelle settimane successive all’incidente, lei incontra tutti, da Francine a Mette, alla ricerca di conferme o informazioni, e non si ferma mai, per quanto il suo vagare fra gli affetti di Camus sia assolutamente devastante.
Per Mette Ivers, mi viene in mente un aggettivo apparentemente ingenuo: “pura”. È la stessa impressione che mi dà adesso, all’età di novantuno anni, quando nelle interviste mostra un viso trasparente, pulito. È una donna ancora bellissima. Sì, “pura” mi sembra davvero l’aggettivo adatto a lei.
- Nei paratesti che circondano il tuo romanzo, parli di un “piacere osceno” provato nel frugare le carte altrui. Nell’esergo, poi, scegli una citazione nella quale Camus parla di un amore senza morale. Alla fine, secondo te, che Albert viene fuori da questo mosaico a quattro voci?
Viene fuori un Albert complesso, ed è questo ad interessarmi. È la complessità, d’altronde, a interessarmi in letteratura, la complessità che sa restituire del reale, l’impossibilità di dire qualcosa di definitivo, che però non è limite, ma ricchezza. Non posso scrivere nulla di definitivo su Albert Camus in quanto autrice, e non posso poi sapere cosa ogni singolo lettore penserà richiudendo il libro. Alla fine, ogni lettore e ogni lettrice avrà il suo Camus, avrà la sua reazione a ciò che ha letto.
- I diari che prima citavi sono solo una parte dell’ampia documentazione della quale ti sei avvalsa: biografie e autobiografie, interviste dall’indimenticabile Pivot, video e immagini. Vorrei ti soffermassi su questi ultimi: cosa ti hanno lasciato le immagini in movimento delle tue protagoniste? Quanto sono state importanti le loro voci?
Mi hanno lasciato davvero tanto. Direi che è una parte fondamentale degli studi e delle ricerche che ho compiuto, perché attraverso i video si percepiscono cose indefinibili, direi quasi non razionalizzabili. Ascoltare Maria Casarès in un’intervista radiofonica del 1961 e poi rivederla anziana nel programma televisivo di Pivot mi ha dato accesso a una forma di conoscenza immediata, trasmessa dal tono della voce, dallo sguardo, dai movimenti. Mi è accaduto lo stesso con Mette Ivers. Ripensando a una sua intervista per la radio, la più recente, a proposito di Sempé, l’ex marito e celebre illustratore, mi rendo conto quanto la sua voce abbia alimentato la mia immaginazione: a partire dai silenzi, dalle piccole esitazioni, ho potuto dare carne al suo personaggio. Uguale importanza hanno, in tutto ciò, anche le foto.
Torno però a parlare dei diari di Catherine Sellers, perché la loro lettura resta un punto imprescindibile del mio lavoro e perché, anche qui, in un certo senso, esiste un elemento corporeo. Quando ho cominciato a documentarmi, questi diari non erano ancora stati digitalizzati, pertanto ho lavorato sui manoscritti: li toccavo, li sfogliavo, addirittura nel diario del 1960 c’erano tracce di lacrime che avevano cancellato l’inchiostro. L’emozione è stata intensissima.
Lo riconosco, c’è in tutto ciò un piacere un po’ osceno, ma con cui è possibile, e anzi necessario, fare pace per trasformare quello che ci ha mosso inizialmente in qualcosa di più nobile, in materia letteraria.

Recensione del libro
Vedove di Camus
di Elena Rui
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Chi erano le “Vedove di Camus”? Intervista alla scrittrice Elena Rui
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