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Storia della letteratura

“Il sogno del prigioniero” di Eugenio Montale: la guerra e la prigionia esistenziale

Scritta nel 1954, “Il sogno del prigioniero” è la poesia che chiude la raccolta forse più cupa di Montale “La bufera e altro” (1956) in cui veniva narrato l'abominio della guerra. Nell'uomo descritto dal poeta possiamo cogliere la condizione di prigionia sperimentata dall'intera umanità.

Alice Figini
Alice Figini Pubblicato il 01-09-2023
“Il sogno del prigioniero” di Eugenio Montale: la guerra e la prigionia esistenziale

Scritta da Eugenio Montale nel 1954, Il sogno del prigioniero riflette l’atmosfera tesa della Guerra Fredda. La poesia è posta in chiusura dell’ultima sezione della raccolta La Bufera e altro, intitolata emblematicamente Conclusioni provvisorie. Attraverso la cupa metafora della “bufera”, che dava il titolo alla silloge poetica, Montale intendeva esprimere lo sconvolgimento arrecato dalla Seconda guerra mondiale che aveva definito il Novecento come un’epoca tragica di barbarie e nazifascismi. La poesia diventa così la forma più radicale e tenace di antifascismo, una forza salvifica da opporre all’abominio in atto.

Ne Il sogno del prigioniero il poeta si identifica con un uomo recluso che la critica ha identificato nel prigioniero di un gulag sovietico (a questo proposito si noti il riferimento all’aria polare, Ndr), oppure nel deportato di un campo di concentramento nazista (questo sterminio d’oche, Ndr). Possibile che l’autore in questi versi, scritti nella metà degli anni Cinquanta, abbia incluso entrambe le realtà storiche per ribadirne l’identico e inenarrabile orrore; del resto al lettore non importa comprendere dove si trovi di preciso il prigioniero, ciò che conta è la sua condizione che è uguale a quella di ogni uomo recluso.

Il testo di Montale vuole essere una critica agli orrori dei regimi totalitari e in quest’ottica deve essere letto, anche se il lettore più sensibile sarà di certo toccato dagli ultimi versi in cui l’autore sembra evocare il profilo di una donna-angelo, portatrice di salvezza, di dantesca memoria.

“Il sogno del prigioniero” di Eugenio Montale: testo

Albe e notti qui variano per pochi segni.
Lo zigzag degli storni sui battifredi
nei giorni di battaglia, mie sole ali,
un filo d’aria polare,
l’occhio del capoguardia dello spioncino,

crac di noci schiacciate, un oleoso
sfrigolio dalle cave, girarrosti
veri o supposti - ma la paglia è oro,
la lanterna vinosa è focolare
se dormendo mi credo ai tuoi piedi.

La purga dura da sempre, senza un perché.
Dicono che chi abiura e sottoscrive
può salvarsi da questo sterminio d’oche;
che chi obiurga se stesso, ma tradisce
e vende carne d’altri, afferra il mestolo

anzi che terminare nel pâté
destinato agl’Iddii pestilenziali.
Tardo di mente, piagato
dal pungente giaciglio mi sono fuso
col volo della tarma che la mia suola

sfarina sull’impiantito,
coi kimoni cangianti delle luci
sciorinate all’aurora dai torrioni,
ho annusato nel vento il bruciaticcio
dei buccellati dai forni,

mi son guardato attorno, ho suscitato
iridi su orizzonti di ragnateli
e petali sui tralicci delle inferriate,
mi sono alzato, sono ricaduto
nel fondo dove il secolo è il minuto -

e i colpi si ripetono ed i passi,
e ancora ignoro se sarò al festino
farcitore o farcito. L’attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito.

“Il sogno del prigioniero” di Eugenio Montale: parafrasi

In prigione le albe si differenziano dalle notti per pochi dettagli. Il movimento degli stormi di uccelli lungo i bastioni di guardia è diventato la mia unica possibilità di movimento, le mie sole ali di libertà. Un filo d’aria ghiacciata, lo sguardo del capoguardia dallo spioncino, il rumore che si fa quando si schiacciano le noci “crac”, lo sfrigolio dell’olio della cucina, veri o presunti girarrosti. Ma se dormo m’immagino ai tuoi piedi, la paglia diventa oro, la lanterna dalla fiamma di colore rosso diventa un focolare.
Questo processo di epurazione dura da sempre, senza un perché. Dicono che chi rinnega sé stesso e sottoscrive i loro ordini possa salvarsi da questo sterminio d’oche.; che chi invece non rinnega sé stesso e vende invece la pelle altrui può afferrare il mestolo dei carnefici anziché finire nel paté destinato a nutrire queste presunte divinità terrene (i politici; i capi di stato).
Io sono lento di mente, pieno di piaghe, ormai mi sono fuso con il pungente pagliericcio e con la tarma incollata sotto la suola che la mia scarpa sbriciola sul pavimento. Nei giorni di luce - che ricordano i kimoni variopinti proiettati sull’alto delle torri - ho annusato l’odore di bruciato proveniente dai forni che viene portato dal vento come odore di ciambelle.
Mi sono guardato attorno, ho disegnato con gli occhi arcobaleni dove c’erano ragnatele e immaginato dei fiori sbocciare tra le inferriate. Mi sono alzato e sono crollato nel sonno dove un minuto dura un secolo - e i passi e i colpi sempre si ripetono e io non so ancora se al grande banchetto sarò vittima oppure carnefice.
L’attesa si prospetta lunga, ma il mio sogno di te ancora non è finito.

“Il sogno del prigioniero” di Eugenio Montale: analisi e commento

Il sogno del prigioniero sembra essere il ritratto di un atroce incubo. Nel descrivere la condizione di prigionia Montale si serve di tutto il suo talento metaforico e simbolico: la forza delle descrizioni - il volo degli uccelli sulle torri, l’aria polare - si intreccia con la dirompenza di metafore e allegorie - la libertà sono un paio d’ali negate, la lanterna è l’illusione di un focolare. Non sfugge l’allusione all’assurdo sterminio nazista che il poeta presenta con una metafora culinaria: lo sterminio d’oche che termina terribilmente nel paté, poi il riferimento all’odore di ciambelle che escono dai forni; non è più promettente l’allusione ai “girarrosti” che ricordano gli strumenti di tortura utilizzati per estorcere confessioni.
Per il prigioniero di Montale il vero incubo è la realtà, mentre dormendo può immaginare di trovarsi vicino alla donna amata evocata, come presagio di salvezza, nell’ultimo verso:

L’attesa è lunga,
il mio sogno di te non è finito

La donna dunque è il sogno che si contrappone a una serie di visioni terrificanti: pur nell’isolamento cui è costretto l’uomo non è ignaro di quanto accade intorno, che viene suggerito al lettore tramite l’eco di schiocchi, colpi e passi violenti che rimbombano sull’impiantito. Il protagonista ancora ignora se la sua sia una condanna a morte oppure no: sarà dalla parte dei traditi o dei traditori? La domanda, come sempre nelle liriche di Montale, rimane sospesa, senza risposta.
Il prigioniero non sa il suo destino. Resta tuttavia viva in lui la speranza di un amore, di una casa, di una donna che lo aspetta.

Secondo i critici la condizione del prigioniero di Montale riflette la visione dell’inferno dantesco; l’uomo smarrito nel mezzo del cammino sprofonda nelle pene e conosce l’essenza più pura del male, ma rimane in lui la speranza di rivedere Beatrice, la donna divina, che vive nella luce. La donna-angelo infine evocata dal poeta è invece Clizia (ispirata a Irma Brandeis, Ndr), che viene prima introdotta dal consueto senhal utilizzato per richiamarne la presenza: le iridi. Non è una santa né una madonna che sta in cielo ma è una donna comune, intesa quindi in senso laico, che attende - come tante - nell’ambiente angusto ma confortevole di una casa. Questa figura femminile rappresenta la via di fuga e di redenzione dalle barbarie in atto nel mondo intero.

Il sogno del prigioniero è una poesia storica, che risente profondamente dell’intemperie politica del proprio tempo, ma potrebbe essere ambientata simbolicamente in ogni tempo, almeno finché ci sono guerre e carnefici, vittime e oppressori. Eugenio Montale credeva che con la Seconda guerra mondiale la storia si fosse in qualche modo “esaurita”; non sapeva quanto si sbagliava. E oggi, proprio come ieri, cos’è che tiene in vita il prigioniero?

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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il sogno del prigioniero” di Eugenio Montale: la guerra e la prigionia esistenziale

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