

Del fenomeno delle stragi familiari, note come parricidio o familicidio, se ne sono occupati, oltre alla giustizia e alla psichiatria, pure la letteratura e il cinema, rievocando i famosi casi del francese Pierre Riviére (1835) e dell’italiano Franco Percoco (1956).
Il parricidio, crimine dei crimini


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Il parricidio è un archetipo presente in alcune antiche culture e la tragedia Edipo re di Sofocle ne è l’esempio. Grandi scrittori ne hanno trattato, come fece Dostoevskij con i Fratelli Karamazov, che ispirò su questa tema Sigmund Freud con il saggio del 1928 Dostoevskij e il parricidio (Boringhieri, 1979).
Togliere la vita ai propri congiunti era considerato un crimine contro natura per eccellenza e nell’antica Roma la pena era quella del sacco (culleus), nel quale il parricida era chiuso insieme con bestie capaci di martoriarlo (un cane, un gallo, una vipera e una scimmia) e poi gettato in mare.
Nel codice penale francese di metà Ottocento il regicidio era un crimine punito come il parricidio, considerato il crimine capitale più definitivo e totale dell’assassinio e dell’infanticidio puniti con la morte. Il parricidio è quindi il crimine dei crimini.
I casi italiani di parricidio
In Italia i casi di annientamento familiare, classificati come parricidio, hanno riempito da tempo le pagine della cronaca nera. Il caso più noto, prima dell’avvento della televisione, è stato quello di Percoco, definito in uno studio del 2019 dall’Università di Harvard “la strage più feroce del dopoguerra”.
In seguito gli altri casi hanno dato vita a vere e proprie inchieste giornalistiche e molte sono state le trasmissioni televisive con la presenza di giudici, criminologi, psichiatri. Le vicende più note di figli che ammazzano genitori e fratelli sono quelle di Doretta Graneris, Ferdinando Carretta, Pietro Maso, Erika De Nardo. Uno dei più efferati è accaduto nel settembre del 2024 quando il minore Riccardo Chiaroni uccide con 68 coltellate i genitori e il fratello.
Nella maggior parte dei casi di parricidio il movente è di natura economica, per impossessarsi dei beni dei genitori. e le stragi familiari sono compiute da giovanissimi. Ma ci sono pure altre questioni come l’odio, i contrasti generazionali, la ribellione nei confronti dei familiari e le modalità di esecuzione sono molto violente, spesso utilizzando coltelli, asce, machete, bastoni, con l’aggravante poi della premeditazione, della crudeltà e dei futili motivi. Pochissime sono le attenuanti che la giustizia riconosce agli assassini, tra cui quella dell’infermità mentale.


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Altro è, invece, il caso della violenza domestica da cui difendersi - maltrattamenti, umiliazioni e abusi sessuali - raccontata nel libro autobiografico di Luigi Celeste Non sarà sempre così (Piemme, 2017) diventato il soggetto del film Familia del regista Francesco Costabile, presentato all’ultima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia (2024).
Il parricidio fra cinema, TV e letteratura
Il cinema e televisione si sono occupati di casi di parricidio, con quel mix tra attrazione e repulsione che fa audience quando si racconta dei mostri in famiglia. Nasce pure un particolare genere letterario e cinematografico che riprende il format anglosassone true crime con la serie televisiva italiana Delitti in famiglia e quella statunitense Monster.


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Della storia di Maso, uno dei casi più emblematici di figli che uccidono i genitori, hanno scritto lo psichiatra Vittorino Andreoli, gli scrittori Gianfranco Bettin e Carlo Lucarelli e ha ispirato il film del 1994 di Luciano Manuzzi I pavoni.
Lo stesso Pietro Maso ha pubblicato il libro autobiografico Il male ero io (Mondadori, 2013). Dedicato al caso di Erika De Nardo, Amoreodio è un film del 2013 di Cristian Scardigno.
I casi che hanno avuto una più profonda dignità letteraria e cinematografica sono stati quelli di Franco Percoco e di Pierre Rivière.
Percoco, il primo mostro italiano
Nel 2012 lo scrittore e sceneggiatore Marcello Introna, dopo aver studiato gli atti del processo, pubblica con l’editore Il Grillo il romanzo Percoco, poi riproposto nel 2016 da Mondadori, che diventa nel 2023 il soggetto del film Percoco - Il primo mostro d’Italia diretto da Pierluigi Ferrandini.


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A Bari, nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1956, lo studente fuoricorso Franco Percoco – un depresso, un perdente, un niente - stermina con un coltello da cucina i genitori e il fratello ritardato di cui si vergogna. Sistema i corpi nella camera da letto, sigilla porta e finestra, spruzza sui muri e sugli infissi spray al gelsomino per ridurre l’odore della decomposizione dei cadaveri. Per dieci giorni organizza nello stesso appartamento feste, cene con la fidanzata e gli amici, sperperando i soldi della famiglia. I cadaveri vengono ritrovati quando, dopo le lamentele dei condomini del palazzo, una pattuglia di agenti si reca nella notte del 6 giugno in via Celentano 12 per accertare la causa di un nauseante odore proveniente dall’appartamento della famiglia Percoco.
Nel frattempo l’autore del massacro era fuggito. Con la belva di via Celentano ancora libera, Bari vive ore di ansia angosciosa, come titola la “Gazzetta del Mezzogiorno”. Percoco viene rintracciato e arrestato il 9 giugno in una pensione di Porto d’Ischia. Della tragedia parla tutta la stampa italiana, ma il caso Percoco scatena pure un attacco alla libertà di stampa quando il quotidiano barese pubblica gli atti della confessione riportando i particolari della strage. Tutte le copie del giornale vengono sequestrate e i giornalisti sono accusati di diffusione e di spettacolarizzazione di materiale raccapricciante.
Pierre Rivière, il primo mostro francese


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Nel maggio del 1835 il poeta criminale Pierre François Lacenaire (Memorie di un poeta assassino, Castelvecchi, 2016) confessa l’omicidio di due persone e nel luglio 1835 il rivoluzionario francese Giuseppe Fieschi attenta la vita al re Luigi Filippo. Dei due crimini parla con clamore la stampa dell’epoca, mentre poche pagine sono dedicate a un parricidio consumato nello stesso periodo in un lontano e sconosciuto paesino.
Il 3 giugno 1835 il contadino ventenne Pierre Rivière massacra con una roncola sua madre incinta, sua sorella e il suo fratellino in un villaggio della Normandia. Dopo il massacro si rifugia per un mese nei boschi; alla fine viene arrestato dalla Gendarmeria e imprigionato. Durante la detenzione scrive una Memoria che consegna ai giudici, in cui spiega le ragioni del suo gesto: difendere il padre dalle angherie della madre.
Condannato a morte, viene graziato dal re Luigi Filippo, spinto dai giornali che ritengono un’ingiustizia condannare un alienato mentale. Non ci fu invece alcuna grazia per Fieschi e Lacenaire, che furono ghigliottinati. Pierre Rivière nel 1840 si impicca nella sua cella.
Il seminario di Foucault
Di questo caso di giustizia, correlato alla medicina dell’epoca, s’interessò il filosofo e cattedratico Michel Foucault (1926-1984), l’autore di Storia della follia nell’età classica (Rizzoli, 1963) e di Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (Einaudi, 1976).


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Nel 1973 la storia del parricida, i documenti giuridici e le consultazioni medico-legali furono oggetto di un seminario di ricerca diretto dal filosofo francese al Collège de France. Ne nacque il volume pubblicato da Gallimard Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello... il cui titolo riprende l’incipit della Memoria. In Italia fu pubblicato da Einaudi nel 1976 e riedito nel 2000 e nel 2020, decretando il successo di quest’opera molto particolare.
Nell’Introduzione (edizione 2000), lo psichiatra Paolo Crepet scrive:
Perché leggere – o rileggere – Pierre Rivière ? [...] Innanzitutto perché la memoria di Pierre Rivière rappresenta un documento straordinario, narrativamente seduttivo. È una storia appassionante che può essere letta come un racconto. Proprio come la trama di un film...
Foucault scrisse che la Memoria (Riassunto delle pene e delle afflizioni che mio padre ha sofferte da parte di mia madre dal 1813 al fino al 1835) di Pierre Rivière è un testo di grande stranezza:
La sua sola bellezza basterebbe ancora a proteggerlo, oggi. [...] Nel corso di un’istruttoria e di un processo degli anni 1830, come poteva essere accolto da medici, magistrati, giurati che dovevano trovarvi le ragioni di decidere la follia o la morte?
Sono circa ottanta pagine di una grande intensità e di particolare qualità letteraria, per essere state scritte da un contadino appena alfabetizzato. La lettura è avvincente, inquietante e può essere la trama di un romanzo noir o di un thriller psicologico con la presenza di un assassino folle e una madre e moglie bugiarda che indebita il marito minacciandolo e ricattandolo utilizzando a proprio vantaggio le leggi e la morale dell’epoca, seppur non vivessero più insieme. Pierre Rivière è considerato dal villaggio un idiota per le sue fattezze, la selvaticità e i suoi comportamenti asociali. Da bambino torturava gli uccellini schiacciandoli tra le pietre, crocifiggeva le rane e si era costruito un arnese di morte a cui aveva dato il nome stravagante di calibine. Era anche preda di fanatismo religioso.
In giovane età, cioè verso i sette e gli otto anni, ebbi una grande devozione. Mi ritiravo in disparte per pregare Dio. [...] Lo feci per due o tre anni. Era quel che avevo letto che me lo ispirava. […] Concepii l’orrendo progetto che ho eseguito, ci pensai pressapoco per un mese. Dimenticai completamente i principi che dovevano farmi rispettare mia madre e mio sorella e mio fratello, vidi mio padre come fosse tra le mani di cani arrabbiati o di barbari contro cui dovevo impiegare le armi, la religione proibiva tali cose, ma dimenticai le regole, mi sembrò anzi che Dio mi avesse destinato per questo, e che avrei esercitato la sua giustizia. […] Gesù Cristo è morto sulla croce per salvare gli uomini [...] io non posso liberare mio padre se non morendo per lui.
L’aspetto più raccapricciante della tragedia riguarda l’uccisione del fratellino, che lo stesso Pierre Rivière amava, e la motivazione è contorta e surreale come quella di un folle.
Mi determinai ad ucciderli tutti e tre; le prime due perché si accordavano tra loro per far soffrire mio padre, quanto al piccolo avevo due ragioni, l’una perché amava mia madre e mia sorella e l’altra perché temevo che uccidendo solo le altre due mio padre, pur avendone un grande orrore, continuasse a rimpiangermi sapendo che ero morto per lui, sapevo che amava questo bambino […] avrà un tal or di me che orrore di me che si rallegrerà della mia morte e quindi esente da rimpianti vivrà più felice.
Pierre Rivière - ci si interroga ancora oggi - era un alienato che aveva ucciso per volere divino? Oppure aveva simulato indossando la maschera del folle? La Memoria ci dice altro: il giovane contadino confessa che ha deciso – in maniera folle – di farsi giustizia da solo di una madre e di una moglie tiranno per restituire al padre la parola che le leggi – della Giustizia e della Chiesa – avevano negato.
Parola che Fieschi e Lacenaire possedevano: il primo con la rivoluzione, il secondo con la poesia.
La storia del parricidio è stata adattata due volte per il cinema nello stesso anno 1976 da René Allio con il titolo Moi, Pierre Rivière, ayant egorgé ma mère, ma soeur et mon frère... e da Christine Lipinska con il titolo Je suis Pierre Rivière.
Anche il teatro si è ispirato al parricida di due secoli fa, con i lavori rappresentati in Italia di Oreste Crisòstomi, attore e regista ternano, e del regista italo svizzero Daniele Bernardi.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Il parricidio fra letteratura, cinema e TV: i casi di Percoco e Rivière
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