La novella Il chiodo prende spunto da un fatto di cronaca: l’omicidio compiuto da un ragazzo di Harlem, un quartiere di New York prevalentemente abitato da afroamericani.
Scritta da Luigi Pirandello nel 1936, venti giorni prima della morte per polmonite, come una sorta di testamento letterario, ha l’incipit che desta subito curiosità:
Il ragazzo ha confessato che, quel chiodo, lui l’aveva trovato traversando una strada del quartiere negro di Harlem. Era un grosso chiodo arrugginito caduto forse da un carro passato poco prima per la strada. Caduto apposta. — Come, apposta?
La trama della novella è essenziale, giacché l’attenzione è soprattutto rivolta alla psicologia del personaggio, che non ha nome (il “nascosto” in sintonia con il “nascosto” della vicenda), fa riflettere sull’insensatezza della vita affidata al caso.
“Il chiodo”: un’analisi della novella di Pirandello
Incomprensibile e inesplicabile ciò che gli era accaduto: egli, che viene interrogato dalla polizia, lo riferisce sì con calma, ma negli “occhi vitrei” è fissato il terrore.
Poi si legge del chiodo, in mezzo alla strada deserta:
E vi spiccava in tal maniera che irresistibilmente attirava a sé non pur lo sguardo ma anche la mano di chi si fosse trovato a passare, forzato a chinarsi per raccattarlo, anche senza sapere che farsene, anche per ributtarlo sulla strada poco dopo.
Nel corso dell’interrogatorio il ragazzo riferisce che mai avrebbe pensato di servirsene e neanche nell’atto di utilizzarlo. Era stato inevitabile. L’aveva raccattato per un impulso irresistibile:
Il chiodo era ormai “quieto” nella sua mano.
Succede che per la strada incontra due monelle che tra loro si azzuffano e lui d’impeto si getta su di loro, conficcando inconsapevolmente il chiodo in testa alla più piccola:
Perché aveva colpito la piccola e non la grande non sapeva dire. Non conosceva né l’una né l’altra. Non aveva avuto tempo neppur di vederle in faccia. Aveva veduto soltanto che la grande teneva acciuffata la piccola per i capelli sulle tempie, e che questi capelli della piccola erano rossi di rame, e una sua mano, come artigliata, sulla faccia della grande, che le tirava da sotto orribilmente un occhio, scoprendone tutto il bianco, fin quasi a farlo schizzar fuori.
Perché ha ucciso la piccola e non la grande? La domanda del lettore, e anche del ragazzo, resta senza alcuna spiegazione. Il chiodo l’ha uccisa e ora il ragazzo, quasi in preda all’angoscia, ascolta le argomentazioni che vengono escogitate per spiegare il suo atto: sia quelle a suo favore, sia contro di lui. Tutte gli sembrano vere e probabili anche se non le considera riferite al suo atto. Sembra che ci si trovi in un labirinto da cui è impossibile uscire. E lui spera che non venga scoperta l’effettiva verità che si tiene nascosta nel profondo del cuore:
Di quel chiodo cioè caduto apposta e di Betty e dell’altra ragazza che, proprio mentre lui svoltava dalla strada, si erano azzuffate ugualmente apposta perché lui da quella loro zuffa trascinato a menar le mani, senza piú pensarci armato di quel chiodo, commettesse la feroce ingiustizia d’uccidere una innocente.
Vera è soltanto quell’altra cui nessuno vuole credere. Parlano gli investigatori di insulto epilettico, ma lui è sicuro di non essere mai stato soggetto a tale malattia. Spunta l’ipotesi dell’istinto malvagio, ma lui sa di non aver mai manifestato atti inconsulti:
Non parlano di lui. Nessun istinto s’era risvegliato in lui nell’atto di raccattare il chiodo; l’aveva raccattato senza neppur pensare a quello che faceva; ed era cosí al tutto alieno che, nel tratto di strada prima di svoltare, pensava soltanto al carro, a un carro da cui quel chiodo poteva esser caduto; un carro che forse s’avviava verso la campagna lontana. Perché lui tornava proprio dalla campagna in quei giorni, dov’era stato a villeggiare con la famiglia, l’estate, e ne aveva visti passare tanti di quei carri lungo i sentieri tra le erbe alte.
Le invenzioni e le assurde supposizioni contrastano con l’abbandono del ragazzo ai ricordi della villeggiatura estiva con i genitori nel Connecticut.
È una bella pagina della novella in cui fotogrammi dettagliati si susseguono con leggerezza e freschezza rasserenante fino alla sorprendente rivelazione in un’atmosfera visionaria: Betty, la ragazza uccisa è là con lui.
Ma ora non può più esser solo. Ora è là in mezzo a tutta quell’erba, con Betty; vuole giocar con lei; ma Betty dapprima non vuole; poi gli dà la manina, una manina ancora fredda fredda, di gelo, che dà un brivido a toccarla; non bisogna più pensarci; si china a guardarla; lei ora lo segue a capo chino e col ditino dell’altra mano all’angolo della bocca. Vanno e vanno. Ma cosí è inutile, se non debbono giocare. Non vuole più giocare? Non può? E allora? Si vuol gettare di nuovo a terra? No! No! Betty ora è guarita, e dev’esser vispa di nuovo, e ridere, ridere, sì. Ma Betty si ferma e con la manina gli fa segno d’attendere un po’. Che cosa? Deve allontanarsi un momento, un momentino solo.
Un bisogno. Lui resta un po’ mortificato. Non gli piace che le femminucce facciano saper certe cose. Ma ecco che invece di lei, dal punto dove è andata a nascondersi, vien fuori un’altra ragazza; no, non è quella della zuffa; è una sua cuginetta, grassa e brutta, quasi della sua età, venuta da Harlem con la madre per passare in campagna tutta la giornata; lui non la può soffrire. Dov’è andata Betty? Eccola là lontano che corre; ha preso questo pretesto per fuggire; ha paura di lui. No, no, Betty; lui non ti farà più male; lui darà la sua vita per farti rivivere e lascerà che tu prenda in casa il suo posto. Ora sei qui; ci penserà la mamma a lavarti bene; e via tutti questi straccetti; con un abitino nuovo ti vestirà, d’un colore che ti stia bene, d’accordo con questi tuoi capellucci rossi, un abitino color pervinca; oh come ora sei carina così; peccato che lui non ci debba esser più per vederti, se ha dato per te la sua vita; e tu resterai sempre piccina così, qua in campagna, senza mai farti grande per nessuno; in campagna, come in un paradiso, Betty.
È la disperazione sconfortante del ragazzo a inventarla. Indubbiamente, spinto dal rimorso o dal senso di colpa la rivede in un contesto onirico. Nel sogno la immagina compagna di giochi nella villa di campagna e la fa rivivere in un contesto idilliaco. Egli vuol giocare con lei, ma Betty, nel grande giardino, dapprima si rifiuta, poi insieme vanno e vanno senza giocare.
Fa la sua comparsa la cuginetta “grassa e brutta” che vuol giocare con lui. E Betty corre e corre per fuggire, avendo paura del ragazzo. Ma anche lui fugge da se stesso: non potrà più rivederla vestita a nuovo dalla mamma.
Ed ecco l’archetipo della fuga come un volersi estraniare dall’assurdo che si sta vivendo. Il ragazzo non viene incriminato:
Passeranno gli anni. E forse da grande penserà qualche volta a Betty. E la vedrà, sempre piccina, che lo aspetta in campagna a Old Lime, con l’abitino color di pervinca sempre nuovo, che s’accorda bene coi suoi capellucci rossi.
Il legame tra Pirandello e Camus: l’assurdo
In questa novella c’è il miglior Pirandello che con uno stile asciutto ed essenziale fa scoprire le motivazioni dell’agire umano. Marionette, dunque: marionette manovrate dal fato; burattini nelle sue mani.
La concezione pirandelliana è fatalistica: la sorte malvagia ha invertito le intenzioni del ragazzo; nel momento in cui avrebbe voluto separarle mentre litigavano, viene inspiegabilmente capovolta la sua intenzione e senza averne consapevolezza diventa omicida. Egli non le conosceva. Era intervenuto per porre fine al litigio, ma per un oscuro disegno diventa l’assassino di una innocente, di una vittima sacrificale. Il chiodo, dunque: metafora del tragico, dell’irrazionale negli accadimenti umani, che segna la vacuità della vita; non è la casualità ad essere regolatrice delle azioni, bensì la casualità: una causa ignota da identificarsi appunto con il fato.
La novella è stata recentemente rivisitata da Paolo Taviani e adattata dal regista che, a chiusura del film Leonora addio (2022), si lega alle grottesche vicende delle ceneri di Pirandello.
Il parallelismo con Lo straniero di Albert Camus è chiaro. Mersault, straniero a se stesso, a metà del romanzo spara senza motivo apparente e uccide: la sua mente sembra essere estranea alla mente e al cuore.
Facendo poi riferimento al Mito di Sisifo, scritto dallo stesso Camus e pubblicato nel 1942, viene evidenziato il fatto che bisogna prendere coscienza dell’assurdo, cioè del proprio destino.
Sia Pirandello che Camus si muovono lungo la medesima traiettoria: quella della tematica dell’assurdo. L’affermazione di Pirandello nei Sei personaggi in cerca d’autore:
Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili; perché sono vere.
Sembra essere ripresa da Camus quando afferma:
L’assurdo è la lucida ragione che constata i suoi limiti.
Scrive Danilo Amione, critico cinematografico:
È così che l’opera del sommo artista agrigentino e quella di Camus si intrecciano nel film, entrambe permeate da una profonda riflessione sulla natura umana. L’estraniamento e l’incomunicabilità emergono con forza in entrambi gli autori. E Taviani sembra fare da geniale trait d’union. Se Meursault incarna l’uomo ribelle di fronte ad un mondo incomprensibile, Pirandello, cui presta, fuori campo, la sua sublime voce il grande Roberto Herlitzka, attraverso le sue opere e la sua stessa vicenda biografica, esplora le contraddizioni e le ipocrisie della società, smascherando l’illusione della verità e dell’identità, fino a disvelare la totale assurdità della nostra esistenza.
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Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: “Il chiodo”: analisi della novella di Pirandello che ha ispirato il film di Taviani
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