I piccoli maestri
- Autore: Luigi Meneghello
- Categoria: Narrativa Italiana
- Casa editrice: BUR
- Anno di pubblicazione: 2013
“Ma ciò che mi premeva era di dare un resoconto veritiero dei casi miei e dei miei compagni negli anni dal ’43 al ’45. Veritiero non all’incirca e all’ingrosso, ma strettamente e nei dettagli”.
Così scrive Luigi Meneghello nella Nota introduttiva all’edizione del libro del 1976, precisando comunque, a proposito del genere dell’opera, di concordare con la definizione data da alcuni editori che la qualificavano come "romanzo". Senz’altro è il romanzo di una Resistenza antieroica e antiretorica; i piccoli maestri sono ragazzi che dopo l’8 settembre del 1943 decidono di lasciare gli studi o l’inutile servizio militare, formando una banda attiva principalmente tra Asiago, Vicenza e Padova. Le idealità sono confuse, il bagaglio politico e ideologico inevitabilmente limitato, l’identità stessa del gruppo resta malferma. C’è molto da imparare per loro; i nomi di Gobetti e Salvemini sono noti, ma non i loro scritti. Poco si sa anche di armi:
“Non eravamo mica buoni, a fare la guerra”.
In un clima vivace e strampalato i giovani si confrontano e cercano di darsi un assetto, oscillando tra grandi ingenuità e improvvisi radicalismi. A tratti si insiste forse troppo sullo spirito imbelle e leggero di qualche elemento della composita formazione; ad esempio si famigliarizza con un ostaggio fascista e si lascia perfino che un tedesco prigioniero tenga con sé un’arma. D’altronde è un gruppo che cresce a strappi, in base alle dure esperienze della lotta in montagna che significa patire rastrellamenti micidiali, affrontare grossi problemi pratici, trovare un modus vivendi con la gente del posto cui bisogna chiedere assistenza e aiuto. I giovani che sanno citare Baudelaire e Gozzano entrano in contatto con la miseria dei contadini e dei montanari; davanti alle loro perpetue fatiche, i piccoli maestri si chiedono significativamente se un domani, finita la guerra, cambierà davvero qualcosa per i poveri. Il linguaggio del libro è uno dei suoi aspetti salienti; il testo è scritto con semplicità, “dal basso”, ci sono termini dialettali e frasi che ripercorrono le cadenze del parlato e delle discussioni vivaci e un po’ fumose di ragazzi in via di maturazione. Gustosi in questo senso alcuni passi come questo in cui ci si rivolge a un prigioniero:
“Provai a fare un accenno al fatto che in certe circostanze ben definite, poteva presentarsi la necessità di togliergli, come dire? La vita fisica, sempre col più scrupoloso rispetto della dignità umana, ma un po’ alla svelta”.
Non mancano parti più poetiche, soprattutto sulla vita tra montagne e vallate che ospitano i partigiani, li vedono crescere e spesso morire. Quando si avvicina la fine della guerra, emerge qualche considerazione amara a proposito dei gruppi cattolici:
“La partecipazione dei preti e di qualche persona di chiesa alle prime fasi della resistenza era stata ammirevole; ma ora questo intervento organizzativo, leggermente in ritardo, faceva quasi pensare a una mossa di opportunismo, di concorrenza”.
Invece i giovani di Meneghello, pur muovendosi all’inizio più per forza d’inerzia che per un ben definito e specifico scopo, entrano nella lotta fin da subito, senza nascondersi o indugiare, con i limiti di chi in quegli anni drammatici doveva per forza crescere in fretta. Infatti, il protagonista de I piccoli maestri che narra in prima persona le vicende, a ventidue anni si sente dire: "Sei vecchio, e non sei ancora stato giovane".
I piccoli maestri
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Solo un breve commento ad un tema marginalmente toccato nella recensione di questo romanzo e che personalmente mi ha colpito molto: l’intenso rapporto che si instaura tra il protagonista e la natura. Vivendo tra le montagne per un così lungo periodo di tempo e con così poche risorse, è facile pensare che risulti difficile da parte del protagonista apprezzare l’ambiente che lo circonda. Accade invece l’opposto: la montagna inospitale ospita amichevolmente l’anima dello scrittore che divaga in riflessioni sulle proprie esperienze e, più in generale, sull’uomo moderno che tanto (troppo!) si è allontanato dalla natura creandosi un mondo fatto di rumore, confusione e poca spiritualità.
“In certi momenti le cose si vedono meglio se si vedono con la coda dell’occhio, anzi, con la coda di migliaia di occhietti, è una curiosa faccenda la percezione, migliaia e migliaia di specchietti montati uno accanto all’altro, ci saranno anche spazi scoperti, micromillimetrici, ma per lo più sono sicuro che si sovrappongono ai margini … in questi momenti l’insieme si può anche chiamare bosco, storicamente va bene una parola così, è un buon riassunto, storia dei popoli indoeuropei o in generale questo ramo di homo che abbiamo, che è venuto fuori proprio dal bosco, con un cervello fatto appunto di tanti occhi sovrapposti, micro-immagini … in fondo il cervello umano e il bosco verrebbero a essere la stessa cosa, e nella società abbiamo riprodotto il bosco e il cervello, e tutto quello che in essi dev’essere anche nella società”.
Questa la riflessione che il protagonista si ritrova a fare in un bosco, ascoltando il canto di un cuculo, prima di udire degli spari.
Davvero intesa e lodevole.
Solo un breve commento ad un tema marginalmente toccato nella recensione di questo romanzo e che personalmente mi ha colpito molto: l’intenso rapporto che si instaura tra il protagonista e la natura. Vivendo tra le montagne per un così lungo periodo di tempo e con così poche risorse, è facile pensare che risulti difficile da parte del protagonista apprezzare l’ambiente che lo circonda. Accade invece l’opposto: la montagna inospitale ospita amichevolmente l’anima dello scrittore che divaga in riflessioni sulle proprie esperienze e, più in generale, sull’uomo moderno che tanto (troppo!) si è allontanato dalla natura creandosi un mondo fatto di rumore, confusione e poca spiritualità.
“In certi momenti le cose si vedono meglio se si vedono con la coda dell’occhio, anzi, con la coda di migliaia di occhietti, è una curiosa faccenda la percezione, migliaia e migliaia di specchietti montati uno accanto all’altro, ci saranno anche spazi scoperti, micromillimetrici, ma per lo più sono sicuro che si sovrappongono ai margini … in questi momenti l’insieme si può anche chiamare bosco, storicamente va bene una parola così, è un buon riassunto, storia dei popoli indoeuropei o in generale questo ramo di homo che abbiamo, che è venuto fuori proprio dal bosco, con un cervello fatto appunto di tanti occhi sovrapposti, micro-immagini … in fondo il cervello umano e il bosco verrebbero a essere la stessa cosa, e nella società abbiamo riprodotto il bosco e il cervello, e tutto quello che in essi dev’essere anche nella società”.
Questa la riflessione che il protagonista si ritrova a fare in un bosco, ascoltando il canto di un cuculo, prima di udire degli spari.
Davvero intensa e lodevole.