

Se abbiamo una qualche familiarità con le lingue classiche e ci appassionano i motti latini potremmo esserci trovati di fronte alla celebre frase Habere non haberi, una massima che trova la propria origine nel mondo greco e che poi, nel Novecento, venne ripresa dal poeta Gabriele D’Annunzio.
Per comprendere il significato della locuzione habere non haberi, oltre a considerare la sua traduzione letterale in italiano, dovremmo cercare di capire in quale contesto culturale e filosofico nasce e quali sono le concezioni morali sottese a essa.
Sarà utile, poi, chiarire perché il grande poeta-vate italiano decise di riprendere e rivalutare la locuzione habere non haberi, fino a farla diventare un motto rappresentativo del suo stile e della sua concezione della vita e a metterla in bocca a uno dei personaggi de Il piacere, uno dei suoi romanzi più celebri.
Riscopriamo, allora, insieme l’origine e il significato dell’espressione latina habere non haberi e perché è stata ripresa da Gabriele D’Annunzio.
Cosa significa habere non haberi?
Traducendo letteralmente il nostro motto ci troveremo di fronte a un oscuro:
“avere [e] non essere avuti”
nella frase, infatti, ricorre due volte il verbo latino habere (avere, possedere), una prima volta all’infinito presente attivo e, poi, all’infinito presente passivo. Più liberamente potremmo rendere la massima con un più comprensibile:
“possedere [e] non essere posseduti”
o, meglio,
“possedere [senza] essere posseduti”.
Si tratta, dunque, di un precetto di carattere morale che ammonisce sul reale valore degli averi, delle ricchezze: non ci troviamo di fronte a un rifiuto sdegnoso dei beni materiali, a una condanna senza appello della mondanità e del benessere quanto, piuttosto, a un loro ridimensionamento: concedetevi pure qualche lusso – sembra dire l’autore di questa frase –, tenete nella giusta considerazione i beni materiali, dei quali, in un modo o nell’altro non potete fare a meno e dai quali potrete trarre qual pur estemporaneo piacere, una limitata soddisfazione ma non cadete nella trappola di diventarne schiavi.
Sembra, quindi, un suggerimento realistico, pragmatico, equilibrato e, in fondo, del tutto condivisibile. Sappiamo bene, infatti, che non possiamo fare a meno di alcuni beni materiali e anche quelli a cui potremmo rinunciare – a pensarci bene –, costituiscono delle piccole soddisfazioni che, in qualche modo ci ripagano dei nostri sforzi; quisquilie che poco o nulla influiscono sulla nostra esistenza ma che rendono visibile e tangibile l’impegno e la dedizione che mettiamo in quello che facciamo, nel nostro lavoro e che, in definitiva, ci gratificano quando li acquistiamo e ci aiutano a vivere meglio.
Altro sarebbe, invece, diventarne schiavi: abbandonarsi a spese compulsive, volere tutto e volere sempre di più, rincorrendo l’ultimo modello di smartphone, la moda più recente o l’automobile più invidiata. Un tranello, questo, in cui ci vuole poco a cadere – e in cui di fatto cadono in molti –, se consideriamo quanto siano pervasive, oggi, le strategie di marketing e quanto sia facile trovarci di fronte a un banner pubblicitario che pubblicizza proprio quello che, poco prima, avevamo cercato su un motore di ricerca.


Link affiliato
D’altra parte, poi, come ricordava il pubblicitario pentito Friedrich Beigbeder in Lire 26.900, a che altro serve la pubblicità se non a drogare le persone, a far sognare cose che non si avranno mai, proponendo un sempre nuovo dalla scadenza molto prossima, così da rendere costantemente infelici le persone, proprio per farne dei perfetti consumatori, ovvero, in definitiva, dei posseduti?
Non dobbiamo, però, limitarci alla sola declinazione economica e voluttuaria della celebre frase habere non haberi: talvolta, infatti, si può essere posseduti anche da altri demoni, molto comuni in una società conformista come la nostra: quanti, dopo qualche anno di rassicurante routine, sono appiattiti nel proprio ruolo lavorativo fino ad esserne completamente assorbiti? Quanti rinunciano alla propria libertà e alla propria autenticità pur di rispondere alle aspettative stantie di chi li circonda e di ossequiare buone maniere, buoni costumi e tradizioni?
Quanti, infine – purtroppo sempre di più – si sentono autorizzati a possedere anche quello che oggetto di possesso, per sua natura, non è e, in un ricorrente delirio di onnipotenza, considerano il partner, o i figli, come proprietà di cui disporre senza alcun limite?
Aristippo e l’origine della frase habere non haberi


Link affiliato
È Diogene Laerzio, ne Le vite dei filosofi, ad attribuire il motto habere non haberi ad Aristippo che, nativo della Cirenaica (una regione dell’odierna Libia), ad Atene era diventato amico e discepolo di Socrate.
Fondatore della scuola cirenaica, che rielabora e approfondisce motivi del pensiero socratico, Aristippo è il padre di un pensiero di matrice spiccatamente etica, che pone il piacere come l’obiettivo primario dell’esistenza. Il filosofo non offre giustificazioni teoriche di questa sua posizione e non pensa a piaceri intellettuali: la sua è una prospettiva tutta rivolta alla quotidianità e alla vita terrena, che osserva con sguardo pragmatico, riflettendo su un uomo che è, ormai, protagonista della società e del mondo, che conosce con i propri sensi (come affermava anche Protagora), persegue i piaceri del corpo e pratica un individualismo e un’autosufficienza che ricorda molto da vicino quella di cinici come Antistene e Diogene.
È proprio da quest’ultimo punto che dobbiamo partire per comprendere il significato del nostro motto: Aristippo, infatti, guardava al piacere con una certa ironia e un netto distacco e proprio a quelli che lo rimproverano per la sua frequentazione con un’etèra ambigua e raffinata, il filosofo replicò:
“Io posseggo Laide, ma non ne sono posseduto, poiché la cosa migliore è dominare i piaceri e non lasciarsene vincere, non il non soddisfarli”
A differenza dei seguaci di Epicuro, che intendevano il piacere come assenza di dolore, Aristippo privilegia, quindi, un piacere tutto mondano, attivo, che modula, però, con il valore greco della misura, un espediente che gli assicura la possibilità di non rimanerne travolto. A differenza del maestro Socrate, poi, egli intende il piacere come l’unico bene e il dolore, di contro, come l’unico male, la virtù, invece, oltre a non coincidere con il bene, di per sé non ha alcun valore.
Habere non haberi: un motto dannunziano
Poste queste premesse ci vuol poco a capire perché Gabriele D’Annunzio abbia riproposto l’espressione latina habere non haberi: la troviamo nel secondo capitolo de Il piacere (1889), dove l’autore elenca i capisaldi dell’educazione aristocratica del protagonista, il conte Andrea Sperelli-Fieschi d’Ugenta. Il poeta-vate ne ricorda gli avi illustri e le loro gesta, le varie letture, i viaggi al seguito del padre che
“aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico”
e l’aveva educato non tanto all’erudizione quanto piuttosto alla realtà delle vicende umane, a una forza dei sensi che deprimeva ogni forza morale, ammonendolo, tra l’altro, a
“conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell’uomo d’intelletto, eccola: ― Habere, non haberi.”
Tutta la vita di questo eroe decadente sarà consacrata al bello e al piacere, unici antidoti al grigiore democratico: percepiva il bisogno del superfluo, Andrea Sperelli, ma come qualsiasi spirito libero che si rispetti, lo maneggiava con noncuranza, dal momento che mantenere intiera e intatta la libertà significava anche non lasciarsene travolgere. Da bravo dandy Andrea Sperelli era individualista fino al midollo e quel distacco lo praticava anche, se non soprattutto, verso il gusto comune, l’anonimo carattere delle masse che in quegli anni iniziavano a reclamare i loro diritti.
E che il distacco, quella capacità di non rimanere posseduti di cui ci parlava Aristippo, sia un connotato imprescindibile del Freigeist lo conferma anche Nietzsche, quando invita a vivere all’insegna di un pathos della distanza, a praticare con spregiudicatezza la volontà di potenza che, sola, può liberare dalle masse e consente di godere a pieno della vita.
Un sentire comune tra uomini eccezionali che si trovarono di fronte alla crisi della borghesia e della cultura ottocentesca, lo confermano le parabole umane di artisti come Salvador Dalì ma anche le vicende di personaggi che fatichiamo a rimuovere dalla nostra memoria come Dorian Gray e Jay Gatsby.

Recensione del libro
Avere o essere?
di Erich Fromm
© Riproduzione riservata SoloLibri.net
Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Habere non haberi: significato dell’espressione latina ripresa da D’Annunzio
Naviga per parole chiave
Approfondimenti su libri... e non solo News Libri Significato di parole, proverbi e modi di dire Aforismi e frasi celebri Gabriele D’Annunzio Storia della letteratura
Lascia il tuo commento