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Recensioni di libri

Fiori estinti di Mattia Tarantino

Terra d’Ulivi, 2019 - Una raccolta di poesie che porta il lettore in un mondo onirico, in cui la parola ha un ruolo centrale in ogni pagina e in ogni componimento.

Fabrizio Bregoli Pubblicato il 09-07-2019

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Fiori estinti

Fiori estinti

  • Autore: Mattia Tarantino
  • Categoria: Poesia
  • Anno di pubblicazione: 2019

Scheda e prezzo libro:

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Leggere la poesia di Mattia Tarantino significa trasferirsi in una prospettiva che esula completamente dalla percezione consueta della realtà (e quindi da certo minimalismo poetico-prosastico di poesia delle piccole cose o della quotidianità scelta a emblema di un mondo). Detto in altri termini, comporta confrontarsi con una parola dalla matrice oracolare, che permette di ascrivere questo linguaggio alla sfera più propria e riconoscibile della poesia orfica, declinata pervicacemente e coscienziosamente in tutte le poesie che compongono questa raccolta.
L’autore in “Fiori estinti” cerca la parola madre che genera e ripudia, che sconvolge e dà rifugio insieme. I maestri di Mattia Tarantino hanno quindi origini molto lontane, quasi ancestrali direi, poiché si attinge alla radice divinatoria della parola, quella della tradizione vedica e ayurvedica in primis, allo zoroastrismo e alla cabala ebraica, al senso di esplorazione “nella notte oscura dell’anima” che è di Juan de la Cruz,. Il tutto è arricchito da esperienze poetiche più recenti, potendosi senz’altro intravedere echi di Baudelaire (lo stesso titolo sottintende un omaggio), di Rimbaud e della sua alchimia della parola, di Verlaine per il senso di un secolo in disfacimento, della sua rovina marcescente, per arrivare soprattutto a Dylan Thomas, citato anche in esergo e sicuramente uno dei maestri di riferimento dell’autore.

Occorre quindi interrogarsi sul significato di questa scelta della poesia orfica a tutto campo, senza mediazioni, sulla sua praticabilità, in una forma così spudoratamente connotata e focalizzata, ossia chiedersi se e come sia oggi possibile per un autore credibilmente percorrere questa strada (oltretutto in un mondo sempre più temporalizzato, dove l’orizzonte metafisico vi risulta appiattito se non collassato). Il rischio di questa poesia può essere quello di un certo epigonismo, incorrere nella tentazione della poesia-vaticinio che è appannaggio solipsistico di chi scrive, pericolo che Tarantino cerca di evitare ricorrendo a una lingua tutta sua, ricreata attorno a una sequenza (cifrata verrebbe di dire) di parole chiave che hanno un andamento percussivo sulla dizione, quasi dissacrante, per evitare la scuola, la maniera. In altre parole avviene la costruzione di un idioletto, a tratti apocalittico, “un alfabeto della fine”, che articoli il suono di una voce esclusiva, mai replica o imitazione altrui.
C’è anche una certa comunanza con il collega e amico Gabriele Galloni, in certe uscite prorompenti di vitalismo, quasi blasfeme. Così succede ad esempio con la figura ricorrente dell’angelo a cui si associano versi caustici ed irriverenti che ne corrompono l’immaginario precostituito, con evidenti intenti, da un lato, di provocazione (forse un po’ esibita?) e volontà di indurre stupore, dall’altro, di necessità ad innovare linguisticamente una materia che altrimenti non potrebbe diventare autenticamente propria (e come tale personale). Si vedano i versi:
"Che la croce crollasse era scritto /per la forma del segno: orina / degli angeli nel grembo corrotto” o ancora “Domani gli angeli avranno / la bocca inchiodata tra il fallo / e la croce”.

Quella di Tarantino è una sorta di ossessione della parola che prevede l’impiego costante di termini - mantra o formulari apotropaici (che al contempo confortano e rinfocolano la ferita) come ad esempio “pane”, “angelo”, “sangue”, “verme”, “carne”, “inverno”, “sciagura”, “acqua”, “madre”, “gerundio”, “fiori”, “nerissimo”. Questi vengono insistentemente rielaborati e ricombinati in un materiale poetico che è colloidale, a mezzo fra l’onirico e il profetico, ma il tono dominante è, direi, quello traumatico. La percezione di una frattura, mai chiaramente circostanziata, ma comunque evidente a se stessa, che è soprattutto una condizione ontologica cogente, non solo dell’autore, che in ogni caso rifugge da ostentati auto-biografismi, ma della specie (della nostra condizione di uomini), che avverte la sensazione contradditoria di una “prima menzogna” che si esplica nella forma di una “lingua irrivelata”. E spetta proprio al poeta decodificarla per darle, se non forma, una sua parvenza fosse anche soltanto di “frottola bianca al principio del tutto” perché “tutta la distanza è capovolta / nell’origine del bianco” e “c’è sempre / una fune fra luce e precipizio”. Occorre, per citare una poesia (Comete) su tutte:

Maltrattare le comete che m’impiccano
alla notte dove ogni croce si rivolse
su se stessa sprofondando;

accartocciare il cielo come fosse
qualche verso disperato in cui lottare
con la lingua, e diventare cieco.

La silloge nella sua interezza è quasi una sorta di “poesia ininterrotta” dall’andamento largo e ben orchestrato dove la visione si sostanza, si replica amplificandosi verso dopo verso. Occorre però che il lettore sappia adeguarsi allo specifico timbro stilistico, fortemente connotato, al suo gioco immaginifico estremo che permea l’esigenza oracolare di fondo. Il lettore abituato a un contenuto e a un’impostazione prosodica diversi potrebbe trovarsi spiazzato. Il disegno è indubbiamente ambizioso, compatto, omogeneo: proprio per questo avrebbe forse giovato una riduzione del numero dei testi inclusi, a favore di una più stretta selezione (per quanto fosse dolorosa la resezione) per valorizzare il corpus sotto l’insegna di una maggiore brevità complessiva, ai fini della condensazione del messaggio.

Riassumendo, a noi sembra che questa sia poesia di allucinatoria lucidità, che vi prevalga e sia dominante l’idea dell’esistenza come caduta rovinosa nell’essere, da cui scaturisce il bisogno di rintracciare e restituire un nome alle cose, ma sempre sotto la stella di un polemos conflittuale e auto-inflitto, quel “lampo freddissimo” che non è mai del tutto risolutivo. Al più si tratta di raccogliere frammenti o detriti, vissuti o solo intuiti, come fosse possibile precipitarne un senso (“quanto / i cieli crollati nel fiore rivelano”). E la forza della poesia di Mattia Tarantino sta proprio in questa incessante ricerca, reiterata quasi fino al parossismo, lo scandagliare da opposti e convergenti prospettive il materiale esplosivo della parola, il suo ribollire magmatico, per cercare di identificare il verbo che “ci salvi dall’inverno e faccia casa” o più semplicemente “un distico che chiuda / i [miei] versi o li sbaragli”.


© Riproduzione riservata SoloLibri.net

Articolo originale pubblicato su Sololibri.net qui: Fiori estinti

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Commenti: 1

  • Liliana Scarparo
    14 dicembre 2019, 09:15

    FIORI ESTINTI DI MATTIA TARANTINO
    NOTA DI LILIANA SCARPARO

    Non è stato facile illustrare e recensire la raccolta di poesie “Fiori estinti” del poeta Mattia Tarantino. Questa raccolta rappresenta un modo originale e alquanto singolare di fare poesia.

    La scrittura e il significato delle liriche, acquistano un senso nuovo perché danno alle parole un’intensità che va oltre il loro senso semantico. Questa raccolta innanzitutto, mette in evidenza la profonda cultura dell’autore (Nato nel 2001) che a trecentosessanta gradi ruota intorno a temi complessi e di difficile interpretazione. Tutto questo può sembrare un limite o addirittura un ostacolo all’interpretazione delle stesse, invece offrono al lettore la possibilità di entrare nel mondo interiore del poeta e forse in se stessi.

    Il genere che propone la raccolta è un viaggio a ritroso nel tempo perché riprende temi ancestrali e primordiali, prima della nascita, nella vita, dopo la morte che in ordine sparso portano il lettore verso il misterioso, l’occulto, l’esoterico che non spaventa ma affascina. Il prima e il dopo sono dimensioni temporali che il poeta supera con una concezione esistenzialistica della vita (Tardo Romanticismo). Le sue liriche senza rima, senza schemi fissi, sono affidate alla parola e già come disse il celebre poeta Mallarmè: le parole implicano sempre una separazione tra il soggetto e l’oggetto ed inoltre una separazione tra la parola stessa e i designata.

    La parola tende a perdere il suo significato nel corso dei millenni e come conseguenze si arriva inevitabilmente alla pseudo incomprensione. Questo limite diventa forza e cerca di andare oltre. Le parole definiscono, infrangono, trasformano, espandono fino alle nostre percezioni per passare dal notum all’ingnotum e quindi novum. Quando la parola recupera il su valore ecco che l’artista fa nascere le stesse da un’ ambiguità che non è confusione, ma è sintomo di confronto, apertura al possibile, al fantastico a ciò che finalmente è e può essere.

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