

L’Uomo Elefante
- Autore: Frederick Treves
- Genere: Storie vere
- Casa editrice: Adelphi
- Anno di pubblicazione: 2021
L’Uomo Elefante di Frederick Treves, pubblicato dall’editore Adelphi con la bella traduzione di Matteo Codignola, racconta una parte della vita di John (o Joseph) Merrick, un uomo affetto da una malattia che ne ha deturpato il viso e parte del corpo.
Il suo cranio era talmente sproporzionato, afflitto da una protuberanza che si sviluppava dalla fronte, che chi lo portava in giro come fenomeno da baraccone lo chiamava Elephant man. Treves, invece, era un medico che decise di prendersi cura dell’uomo ospitandolo in una stanza dell’ospedale in cui lavorava.
Da quel momento la vita di Merrick cambia completamente. Non è più considerato un essere da prendere in giro o da osservare con paura, disprezzo e sgomento, ma diventa invece una persona da conoscere. Treves racconterà, con uno stile straordinario, gli ultimi anni di quest’uomo che non ha mai odiato nessuno, malgrado la vita emarginata e sofferente che ha affrontato fin da piccolo.
Il personaggio è stato poi raccontato anche dall’omonimo celebre film di David Lynch nel 1980.
A parte sottolineare l’ottima traduzione di Cotignola, chirurgica, quello che colpisce della scrittura di Treves è il racconto quasi scientifico, nella sua precisione, degli ultimi anni di vita di un uomo straordinario. Merrick, infatti, malgrado la sua malattia e ciò che ha comportato per la sua vita sociale: le persecuzioni, gli sguardi terrorizzati delle persone, lo scherno e il fastidio quando veniva esibito nei freak show, l’emarginazione e la privazione di qualsiasi piacere e incontro personale e affettivo, ha sempre mantenuto un atteggiamento puro, limpido.
Non ha mai avuto, secondo il racconto di Treves che per almeno due anni gli ha parlato quasi quotidianamente, nessun rimprovero per chi lo ha sfruttato o gli ha procurato dolore, paura, sofferenza e tristezza. Anche della madre, che lo ha abbandonato quando era molto piccolo, Merrick conservava un’opinione altissima.
Nell’incredibile vicenda di un uomo che ha passato l’inferno e che ne è uscito a testa alta, senza alcuna bassezza ma sopportando l’indicibile e sviluppando, quando gli è stato possibile, una ricerca sensata di quelle soddisfazioni, vi è forse una sola considerazione su cui meditare. Merrick era un santo che non si è sporcato con l’odio e il suo calvario è stato in parte sanato in vita. Ma la sua storia, per quanto narrata da un solo libro, che ne ha decretato però la fama dopo la morte, rimane un esempio di quella rarissima capacità umana di sopportare senza esprimere alcuna forma di rancore. Merrick è, dunque, un santo? Un angelo? Forse sì, ma soprattutto è l’aspetto meno considerato, a parte la retorica, di un essere umano. Quella capacità di non considerare il dolore, l’offesa, l’umiliazione, lo sfruttamento, l’abuso, lo scherno come tratti della vita ma solo di guardare il bello.
La bellezza per lui era insita in qualsiasi cosa, la sua rinascita era considerare la vita solo dalla prospettiva della sua bellezza. Nel suo ultimo atto poetico aveva ammirato ogni singolo momento di libertà come uno stato di grazia.

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Questo libro non si legge: si sopporta. Si attraversa come un corridoio di specchi infranti, dove ogni riflesso distorce qualcosa che sei tu. L’uomo elefante non è la storia di un corpo, ma di uno sguardo. Non quello degli altri, ma il tuo. Joseph Merrick non viene raccontato per essere salvato, né per essere pianto: viene esposto. Sempre. Da vivo, da morto, da dentro la pagina.
Merrick è il protagonista, ma non è mai al centro. È al margine, esattamente dove la società lo vuole. Nato con una deformità estrema, finisce inevitabilmente sotto gli occhi di chi guarda e non sa cosa fare del proprio sguardo. I medici lo classificano. I curiosi lo pagano. I benefattori lo mostrano. Anche i più gentili lo rinchiudono in una tenerezza ipocrita. Tutti parlano di lui, pochi parlano con lui. Eppure è lucido, ironico, raffinato. Capisce tutto. Anche quello che gli altri non vogliono ammettere.
Il libro è ambientato in una Londra vittoriana claustrofobica, dove la civiltà si misura nella capacità di osservare il dolore senza sentirlo. In questa gabbia sociale e architettonica, Merrick si muove come un re crocifisso. Le sue giornate si fanno sempre più immobili, sempre più osservate, sempre più rubate. Il suo corpo è la mappa di un male che non è solo fisico, ma culturale, collettivo, sistemico.
Attorno a lui si muovono figure che credono di aiutarlo: medici, impresari, signore dell’alta società. Ma ognuno lo fa per sentirsi umano. La verità più atroce è che Merrick non è usato per il suo bene, ma per giustificare la bontà degli altri. È un altare di carne su cui sacrificare il senso di colpa. Nessuno vuole sapere chi è. Tutti vogliono sapere cosa è.
La sua condizione diventa una trappola: impossibile passare inosservato, impossibile essere davvero presente. La mostruosità, qui, non è nel corpo. È nel modo in cui il mondo lo guarda. Lo sguardo stesso è violenza. E chi legge ne è parte. Perché leggere questa storia vuol dire accettare che la curiosità sia il primo strato della crudeltà.
Ogni gesto di Merrick è straordinario perché non dovrebbe esistere. Ogni parola che pronuncia, ogni sorriso che tenta, è una vendetta contro l’oblio. Eppure, è chiaro fin da subito che questa non è una parabola edificante. Non c’è redenzione. Non c’è ricompensa. C’è solo la resistenza pura e dura di chi continua a essere nonostante.
E quando Merrick, in un frammento che ti rimane conficcato tra le costole, pronuncia la sua frase più celebre – “Io sono un uomo” – non sta chiedendo comprensione. Sta dichiarando guerra. Sta dicendo che l’umanità non è una forma del corpo, ma un grido che rimane quando tutto il resto viene tolto.