Di che cosa parliamo quando parliamo di libri
- Autore: Tim Parks
- Categoria: Saggistica
- Casa editrice: UTET
- Anno di pubblicazione: 2015
Come ogni questione, anche quella letteraria è vittima di pregiudizi e luoghi comuni e sono i più appassionati a volerli distruggere, assumendosi la responsabilità delle proprie scoperte. Tim Parks è scrittore, giornalista e traduttore inglese, oltre che professore all’Università IULM di Milano e, con il suo saggio Di cosa parliamo quando parliamo di libri (UTET, 2015, trad. E. Gallitelli), sembra giustificare chi chiede “ma come fa a piacerti leggere?”.
La questione è proprio questa: da grande amante e studioso di storie, Parks ne comprende la tossicità. Per meglio dire, non sono i libri ad essere velenosi, ma l’idea che gravita attorno a questi. Si potrebbe anche dare l’ennesima colpa ai social, alle app di lettura, alla FOMO e a tutte le altre questioni del nuovo millennio, ma i cliché hanno radici ben più lontane nel tempo. Forse tutto è iniziato proprio quando si è scoperto che gli autori, a sorpresa di tutti, non erano creature mitologiche o divine.
La scrittura, di conseguenza, ha smesso di essere un dono dalle proprietà magiche. Un esempio di questo è Charles Dickens. L’uomo che meglio ha descritto la povertà e le famiglie della Londra Vittoriana, era talmente megalomane da scoraggiare il suo stesso figlio ad intraprendere la strada della scrittura, rivelandogli affettuosamente che non avrebbe mai potuto eguagliare il padre. Quindi si, gli autori, seppur nella loro genialità, spesso sono ipocriti e arroganti.
Il saggio è suddiviso in quattroo macro-capitoli: Il Mondo intorno ai libri, I libri nel mondo, Il mondo degli scrittori e Gli scrittori nel mondo.
Si comprende da sé che è il mondo a rendere tali gli autori. Non l’ultra-terreno, non l’esoterico e non il divino. La semplice realtà, passata o presente che sia.
Anche Tim Parks segue la stessa regola, analizzando la società nel quale egli stesso scrive e pubblica.
Il risultato è che nemmeno questa volta i “problemi del nuovo millennio” sopracitati sono privi di colpe. Ormai ci hanno fatto il callo. Questa carneficina inizia con la globalizzazione. Secondo l’autore, è la peggior malattia della letteratura odierna. Basti pensare alle traduzioni. In passato, queste hanno spesso commesso l’imperdonabile errore di tramandare tra le nazioni significati inesatti.
È così che il suicidio di Septimus de La Signora Dalloway cessa di essere l’originale “That’s for you” (questo è per voi) e diventa in italiano “Questo è per causa vostra”. Tim Parks riconosce questa come una mancanza, ma ammette che lo spasmodico impegno da parte degli autori per evitare che questo accada di nuovo, è ben peggiore.
Ciò che viene scritto oggi è, appunto, globalizzato. Salman Rushdie e l’India diventano familiari all’America, gli autori Norvegesi vincono il Nobel e gli europei amano Franzen per le sue liste infinite di cose americane che possono imparare a memoria e fingere di conoscere. In tutto questo, certo, vi sono molti lati positivi.
Quello negativo è che la scrittura si è talmente semplificata ai fini della traduzione, da aver perso di profondità. La domanda che si pongono gli autori è davvero diventata: “come posso scrivere nella maniera più semplice da tradurre in tutte le lingue del mondo?”. Per conoscere la risposta dovremmo chiederlo ai dialetti, alle figure retoriche, alle frasi onomatopeiche e ai riferimenti culturali.
Certo, potremmo, se ancora se ne incontrasse qualcuno ogni tanto.
Questa è solo una delle questioni che l’appassionato, e appassionante, Tim Parks pone alla luce dei lettori forti. Il saggio è pregno di nozioni divisorie e sfacciate che spingono a porsi delle domande.
Lo stimolo al disincanto che mette una gran voglia di approfondire. Il tono di voce dell’autore è poi inconfondibile. A una festa, in una sala gremita di persone, vorremmo tutti scambiare qualche battuta con Tim Parks, pur consapevoli di uscirne schiacciati.
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